martedì 13 giugno 2017

Harry



Da piccolo non riuscivano a tenermi. Mio padre mi correva dietro per tutto il cortile, mia madre m’inseguiva con la scopa in mano e, quando mi beccavano, mi chiudevano sempre nel pollaio. Cioè, mio padre mi rinchiudeva. Ma io ogni volta scappavo, e quando venivano a cercarmi nel pollaio c’erano solo le galline. Scappavo da ogni posto: dall’armadio, dal gabinetto, dal ripostiglio, dalla legnaia. Quando mio padre mi chiudeva da qualche parte, i miei fratelli accorrevano e si mettevano a contare: non arrivavano a cento che ero già saltato fuori.
Dopo un po’ i miei cinque fratelli cominciarono a invitare i ragazzi dalle case vicine – li chiamavano con un fischio: appena combinavo qualcosa, loro gridavano e attaccavano a fischiare. Intanto mio padre arrivava e cercava di abbrancarmi, ma io me la filavo. Mio padre era il rabbino della sinagoga di Appleton, nel Wisconsin, e aveva pazienza da vendere, con gli altri, ma con me, non so perché, la pazienza gli durava molto poco: ogni volta mi correva dietro e prima o poi mi beccava, me ne dava un bel po’ e m’infilava nel pollaio. Allora arrivavano i ragazzi dalle case vicine e, quando arrivavano, i miei fratelli accettavano le scommesse. Prendevano le puntate. Si giocavano le biglie. All’inizio nessuno ci credeva, che ci avrei messo meno di dieci minuti a scappare da là dentro: erano tutti lí a scommettere, a puntare le loro biglie migliori, quelle grosse di vetro verdi e azzurre, per dire. Invece io di minuti ce ne mettevo solo sette, a scappare, e a volte addirittura cinque, ce ne mettevo, e dopo, coi miei fratelli, dietro casa, ci dividevamo le biglie guadagnate. Ne avevamo ognuno un barattolo di vetro pieno quasi fino all’orlo, e quello piú pieno era quello di Leo.
Eravamo da poco arrivati dall’Ungheria, da Budapest; eravamo poveri, eravamo felici. La mattina, i miei fratelli e io tiravamo su i barattoli, in alto, davanti alla finestra, per vedere la luce che passava nel vetro delle biglie, e sospiravamo,e dicevamo che sembrava il mare. Dopo un po’,però, la voce girò e nessuno volle piú scommettere. Tanto lo sapevano tutti che avrebbero perso.

Certe storie dovrebbero sempre iniziare così. Come un baccanale, una baldoria dove si ride e si scherza provocando la vita; ci si ferma quel tanto che basta a gettare uno sguardo commosso, appassionatamente poetico; e poco importa se dura giusto un battito di ciglio. Scrivere per ragazzi impone di alzare il ritmo, cambiare continuamente registro e sguardo, e perché no, infilar in mezzo una smargiassata ogni tanto che fa buon sangue e tiene allegro lo spirito.

Ma di cosa parla “Harry” di Antonio Ferrara?

Narra la storia romanzata di Ehrich Weisz, in arte “Harry Houdini", grande illusionista e impareggiabile escapologo, il “Mago delle fughe impossibili”. 


Solo che questa storia mi si è appiccicata addosso come sudore quando ho iniziato a leggerla; l’ho trangugiata tutta d’un sorso come un thè ghiacciato nel deserto; eppure il suo sapore è ancora qui ad impastarmi la bocca. Perché a me racconta molto altro.

Della necessità di cercare sempre una via di fuga per restare in vita.
Della magia che ognuno di noi cela nell’anima; che va costantemente evocata, a costo di inventarsela di sana pianta.
Del lavoro che nobilità l’uomo ora e sempre, che si tratti di essere artista, fabbro, fosse anche fare il lustrascarpe; per sé stesso o alla dipendenza di qualcun altro.
Dell’etica dell’onesta, perché un conto è “incantare”, altro è “ingannare”; arrivando a smascherare i ciarlatani, anche a costo di discutere nientepopodimeno che con Sir Arthur Conan Doyle.
Del dare una mano alle persone più deboli e in difficoltà.
Dell’amare incondizionatamente la propria madre, la radice da cui traiamo nutrimento.

"Certo, Harry, certo che diventerai qualcuno.
Là fuori ci sono le scale, e non si viene
al mondo per stare seduti sui gradini.
Mi piacque un sacco, quella risposta.
Gran bella risposta, devo dire.
Mi diede coraggio."


Dell’amare appassionatamente la propria moglie, perché certi sentimenti sono come uccelli inquieti che puntano alle nuvole.

"Successe che m’innamorai di Bess, una delle due sorelle,
quella che aveva gli occhi neri neri, e due settimane dopo
me la sposai. Era piú vecchia di me, Bess, perché lei aveva
vent’anni e io solo diciotto, ma fu quella la svolta della mia
vita. Veramente. Era un incanto, Bess, un incanto vero, una
magia. E mi sembrava tutto strano, a starle vicino, e anche
la città, le case, le nuvole e la strada, vicino a lei, 

mi sembravano tutte fresche, come lavate da poco.
Le facevo un mucchio di scherzi, perché la amavo.
Le facevo comparire dei fiori tra i capelli, per dire.
Le facevo trovare un passerotto vivo nella tasca della giacca.
Le facevo trovare un cucciolo di cane nella borsa.
E, quando restavamo soli e mi abbracciava, anche se ero
bravo a scappare da ogni posto, dal suo abbraccio non scappavo mai, 

ché era una rete dolce come il miele.
E per strada, a guardarla passeggiare al mio fianco, mentre
camminavamo uno vicino all’altra, col mio braccio sopra il
suo, mi veniva sempre una specie di brivido, e allora capivo
che, anche se volevo fare il mago, stavolta me l’aveva fatta
lei, la magia. E pensai che il mio numero volevo farlo con lei, solo con lei.
"

Perché

"solo lei era capace di farmi passare la voglia di scappare."



Harry - Antonio Ferrara - #EinaudiRagazzi

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