mercoledì 27 gennaio 2016

Il volo di Sara


"Avrà avuto forse sei o sette anni, ma sembrava più piccola della sua età. Si stringeva forte a sua madre. Ad un tratto la bambina sollevò lo sguardo e mi vide. Mamma, guarda, un pettirosso - mormorò, sorridendo appena..."


Beati gli ultimi perché saranno i primi. E questo libro l'ho lasciato per ultimo, perché tra gli albi illustrati sulla Shoah in mio possesso, "Il volo di Sara" resta il più bello. Ed è il più bello perché è quello che, senza indugi, più si avvicina all'Inferno. Lo punta, lo scruta, e giunto sul ciglio del baratro, di slancio, lo supera in volo, lasciandolo a terra nella sua meschina mestizia.

Ci vuole coraggio ad infilarsi in una storia del genere, senza prendere scorciatoie, e uscirne indenni; ma ci vuole soprattutto tanta bravura e una sensibilità sopra le righe per trasfigurare l'orrore del secolo in una sorta di favola a misura di bimbo. Coraggio, talento e, per dirla con Fabrizio De André, "un pettirosso da combattimento".


Andiamo a scoprire chi sono le due temerarie che hanno compiuto l'impresa.

Lorenza Farina, bibliotecaria e scrittrice, è la raffinata autrice dei testi, che sono al contempo lirici, onirici e crudi. Crudi perché Lorenza non concede sconti alla "Storia", ci tiene a raccontare quello che è stato per come si è svolto. Ci aveva già provato qualche anno prima con "La bambina del treno", altra storia ambientata sulla Shoah che aveva messo in luce la sua sensibilità narrativa ricca di spunti e inventiva; ma "la bambina del treno" si era fermato all'uscio, allo sguardo volante tra Anna e Jarek, all'anticamera dell'inferno. 

 

Sara invece ci entra dentro a pieno titolo. Come scende dal treno, non fa in tempo a notare un piccolo pettirosso, che la separano a forza dalla madre e la rinchiudono in un alloggio di legno, dove la fanno spogliare dei suoi vestiti (l'ultimo ricordo della madre), le fanno indossare un pigiama a righe molto più grande della sua taglia con una stella gialla cucita sul petto, le tagliano i lunghi capelli scuri e la fanno coricare in una cuccetta ammassata insieme ad altri bambini, impauriti e infreddoliti come lei.

Come si racconta tutto questo? Con polso fermo, tanto tatto, una punta di lirismo e un escamotage onirico apertamente allusivo. Quel pettirosso, appunto, che dal momento in cui la bambina resta sola, decide di vegliare su di lei. Assumendo la funzione di voce narrante. 
 

"Fu allora che decisi che non l'avrei mai lasciata sola. Sarei stato io a farle da madre e da padre, sarei stato io la sua voce".


Sintomatica la scelta dell'uccellino a portare un barlume di umanità in quel lembo di terra e di storia in cui è buio pesto. Una sorta di "contrappasso dantesco". Gli uomini infatti spesso chiamano "bestie" gli animali; in un campo di concentramento in cui sono loro stessi a comportarsi da "bestie", spetta al piccolo pettirosso dare un saggio di umana comprensione, aiuto e solidarietà.


La poesia è tutta in certe finezze descrittive: "Poi le tagliarono i bei capelli scuri, che scivolavano come piume sul pavimento insieme al nastro azzurro che li tratteneva". Poesia che in quelle piume diventa simbolo, Sara e il Pettirosso sono ormai una cosa sola. Così lui va a trovarla di notte, per non lasciarla sola con le sue paure. Le fa delle carezze sul viso con le piume, le cinguetta delle storie sottovoce all'orecchio, fino a quando lei non si addormenta. Le racimola anche del cibo in mezzo alla neve.

 
 

Ma per spuntarla in quell'inferno manca ancora un ingrediente. Ci vuole la "luce" per squarciare le "tenebre". Allora entra in scena lei. Sonia Possentini, "Maria Luce" di nome e di fatto. E' tutto un delicato equilibrio tra bianco e nero, neve e filo spinato, ma la "luce", quella, non manca mai. Immagini forti, evocative e poetiche al tempo stesso, la forza suggestiva delle inquadrature (formidabile quella sul treno), quello stile illustrativo così fotografico che gioca con la "messa a fuoco", lo "sfocato" e la "profondità di campo". E poi quegli indelebili epitaffi di colore, come il baffo rosso della locomotiva e l'azzurro del nastro caduto a terra che legava i capelli di Sara. Fino all'arancio petto del piccolo uccello. I disegni di Sonia Possentini danno concretezza visiva alla potenza descrittiva delle parole di Lorenza Farina, un unicum inscindibile e imprescindibile.


E Sara?


"Una mattina non la trovai più nella baracca. Mi misi disperatamente alla sua ricerca sorvolando tutto il campo. Del fumo usciva lento da un altro camino. In fila la vidi con gli altri bambini. Sarà, appena udì il mio cinguettio, si girò di scatto, sorridendomi debolmente. Poi ondeggio com estrema lentezza le braccia esili, come se stesse per spiccare il volo. Mi avvicinai a lei incurante del ringhiare dei cani. Fu in quell'istante che decisi di prestarle le mie ali, perché fuggisse via al più presto da quel luogo."


Quello è un luogo troppo crudele per una bambina. "Poesia" e "Fantasia" si fanno "Catarsi". La storia decolla dal buio alla luce, dalla paventata morte alla ritrovata vita. Nel cielo della poesia, in un volo dal sapore fiabesco.

 

"La vidi librarsi nel cielo non più grigio, ma azzurro come il vestito che ora indossava, come il nastro che ora le cingeva i capelli. Dalle cime degli alberi spogli, uccelli, venuti da ogni parte, si alzarono in volo. Passeri, pettirossi, merli prestarono le loro ali ad altri bambini che, come Sara, volevano volare via, lontano. Sara precedeva il grande stormo, la più veloce di tutti. Poi sparì tra le nuvole mentre tutt'intorno si levava un coro di cinguettii, di trilli e di gorgheggi".


Questo è un libro da amare, senza remore e senza riserve. Soprattutto, è un libro da leggere. E allora rompete gli indugi e leggetelo ai vostri figli. Compirete un atto d'amore nei confronti della vita.


La vita di Sara - Testo di Lorenza Farina, Illustrazioni di Sonia M.L. Possentini - Fatatrac

La città che sussurrò


L'immane buco nero dell'Olocausto ha sviluppato a poco a poco degli anticorpi che hanno scritto piccole grandi pagine di riscatto umanitario. Azioni dettate dalla solidarietà, certo, ma non prive di una forte dose di coraggio, quelle operate dalle famiglie che nascondevano nelle loro case i perseguitati ebrei, mettendo a repentaglio la loro vita e quella dei rispettivi familiari. Azioni private, che tuttavia in taluni casi hanno raggiunto anche una dimensione collettiva, impedendo che questa già immane catastrofe umanitaria raggiungesse proporzioni ancora maggiori.
In Danimarca, per esempio, quasi tutti gli 8 mila ebrei sono scampati alla furia della persecuzione nazista; il piccolo villaggio di pescatori di Gilleleje protesse ben 1700 persone, tenendole nascoste, nutrendole, cercando di provvedere ai loro bisogni, guidandole alla salvezza, facendole imbarcare dal proprio porto per la vicina, neutrale e sicura Svezia.
A questa luminosa vicenda si ispira il libro scritto da Jennifer Elvgren, illustrato da Fabio Santomauro, edito da Giuntina, intitolato "La città che sussurrò". Protagonista della storia è la piccola Anett, che una mattina, svegliandosi, scopre dalla mamma che in casa sua sono ospitati due perseguitati ebrei: una donna e il suo bambino, di nome Carl. La mamma dice ad Anett di portare la colazione ai due ospiti: la bambina ha paura di scendere nel buio delle scale che conducono in cantina, ma le voci sussurranti che sente provenire da sotto la guidano infondendogli coraggio. I due nuovi amici devono trattenersi in casa loro giusto due notti, il tempo di organizzarsi per la fuga in barca fino in Svezia. Durante la permanenza necessitano di pane, le spiega la mamma. Ecco allora che la bambina "sussurra" al fornaio che ha due nuovi amici, e le serve del pane; sempre "sussurrando" si fa prestare dalla bibliotecaria dei libri da leggere per i nuovi amici; con un "sussurro" si procura delle uova dal contadino. Il sussurro diventa così l'elemento narrativo portante della storia, contenendo la premessa per il suo futuro positivo sviluppo. 
 
Nel frattempo i nazisti irrompono nelle case alla ricerca di ebrei. La notte della grande fuga il cielo è coperto, nuvoloso, e il papà di Anett teme che i rifugiati non riescano a raggiungere il porto nella completa oscurità, senza il favore della luce lunare. Ma la bambina ha un lampo di genio: ripensando a come i sussurri l'hanno guidata quando è scesa in cantina, escogita un piano. 
 

"Papà, e se la gente stesse vicina alle porte delle case e sussurrando guidasse i nostri amici fino alla barca?"

Serve la collaborazione di tutti, del fornaio, del contadino, del bibliotecario, di tutto il paese, che nelle illustrazioni tanto sintetiche quanto efficaci di Fabio Santomauro diventa un grande fumetto corale. "Di qua", "di qua", "di qua", di passo in passo, di sussurro, in sussurro, il paese di Gilleleje conduce 1.700 perseguitati ebrei al porto guidandoli alla salvezza in Svezia. 
Sembra una favola, invece è una storia vera, realmente accaduta, che ha dato vita ad un bel libro, che ha vinto il "Premio Andersen 2015" (miglior storia 6/9 anni); in cui tanti piccoli silenziosi attori tengono in scatto il roboante esercito del male. Come tante piccole gocce che unite insieme fanno un fiume. Di speranza e di luce, nella pagina più nera della nostra recente storia dell'umanità. 
Uniti, per non dimenticare.

La città che sussurrò - Jennifer Elvgren, Fabio Santomauro - ‪#‎Giuntina‬

La bambina del treno

"Ciò che lesse negli occhi della bambina che lo aveva salutato dal vagone, gli fece raggelare il sangue, come se avesse ascoltato una fiaba terribile. Vide la bambina scendere dal treno insieme alla sua mamma in una stazione illuminata da una lugubre luce al neon. C’era un silenzio opprimente, rotto solo dalle urla degli altoparlanti. Vide delle casette circondate dal filo spinato e un camino da cui usciva del fumo denso e nero. Vide degli uomini scheletrici e pallidi che indossavano vestiti a righe, dei soldati con i cani al guinzaglio. Quei riflettori fortissimi sembravano lune, lune di un altro pianeta… Jarek chiuse gli occhi, perché non volle più conoscere il seguito di quell’orribile storia. Li riaprì e rivide il cielo azzurro, gli uccelli che volavano e i campi di grano.
 
E' il momento più intenso e toccante di questo racconto scritto da Lorenza Farina e illustrato da Manuela Simoncelli, per le Edizioni Paoline, che vede protagonisti due bambini: Anna e Jarek. Anna è una bambina ebrea in fila alla stazione insieme a sua madre, in attesa di essere caricata su un treno merci, all'interno di un vagone solitamente adibito al trasporto bestiame, per essere deportata al campo di concentramento di Auschwitz. All'arrivo del treno vengono spinte con forza sul vagone insieme ad altre persone. In piedi e ammassate.

Il treno parte, Anna ha fame, e un vecchio con la barba bianca le da un tozzo di pane. Dopo un breve viaggio il treno si arresta, rimane fermo per ore, per riprendere il viaggio al calare della notte. Anna ha paura, e lo stesso vecchio con la barba bianca tira fuori dalla tasca un mozzicone di candela e lo accende, rischiarando l'interno del convoglio. Gli racconta la favola di Pinocchio e la piccola si addormenta, per risvegliarsi la mattina dopo con il treno in movimento. La mamma prende in braccio Anna e l’avvicina alla feritoia per farle prendere un po’ d’aria. 
 
Da quella piccolissima grata, Anna intravede i campi di grano, il cielo azzurro e gli uccelli che volano, il sole della bella giornata e tra i campi, nascosto tra i fili d'erba c'è un bambino, è Jarek: i due sguardi si incrociano per pochi istanti, i due si salutano con la mano.

Jarek corre verso casa, e riceve il rimprovero della mamma perché continua a disubbidirle andando nel campo a vedere passare i treni. Perché lui aveva capito che non si trattava di treni ‘normali’. C’era qualcosa che anche Jarek percepiva, ma non sapeva chiaramente cosa. Infatti, i grandi a casa parlavano sempre sotto voce e lui non era mai riuscito a capire cosa dicessero, però sentiva che c’era qualcosa di terribilmente incredibile.
Quella mattina, dopo aver incontrato lo sguardo di Anna, per un attimo aveva capito che aveva a che fare con quel qualcosa di terribile che la madre non gli voleva raccontare, perché i bambini non potevano capire.
"E' stato solo un sogno? Si domandò con angoscia. 

Ogni giorno tornava di nascosto a guardare il treno passare treni che passava, sperando di rivedere ancora quella bambina che dal vagone gli aveva fatto ciao con la mano".
 

 La bambina del treno - Lorenza Farina, Manuela Simoncelli - #EdizioniPaoline

L'albero di Anne


"Ho più di cento anni, e sotto la corteccia migliaia di ricordi. Ma è di una ragazzina - Anne il suo nome - il ricordo più vivo. Aveva tredici anni, ma non scendeva mai in cortile a giocare. La intravedevo appena, dietro il lucernario della soffitta del palazzo di fronte. Curva a scrivere fitto fitto, quando alzava gli occhi il suo sguardo spaziava l'orizzonte. A volte però si fermava sui miei rami, scintillanti di pioggia in autunno, rigogliosi di foglie e fiori in primavera. E vedevo il suo sorriso. Luminoso come uno squarcio di luce e speranza in quegli anni tetri e bui della guerra. Fino a quando, un giorno d'estate, un gruppo di soldati - grandi elmetti e mitra in pugno - la portò via. Per sempre. Dicono che sotto la mia corteccia, insieme con i ricordi, si siano intrufolati funghi e parassiti. E che forse non ce la farò. Sì, sono preoccupato per le mie foglie, per il mio tronco, per le mie radici. Ma i parassiti più pericolosi sono i tarli, i tarli della memoria. Quelli che vorrebbero intaccare, fino a negarlo, il ricordo di Anne Frank".  


Al n. 263 di Prinsengracht, ad Amsterdam, vive un ippocastano di 150 anni. Nemmeno troppi per un albero della sua specie, ma è minato da un infezione fungina e dalle tarme. Temendo di essere prossimo all'abbattimento, decide di raccontare una storia accaduta più di sessanta anni fa. 263 Prinsengracht, Amsterdam, è l'indirizzo della casa dove si rifugiò Anna Frank con la sua famiglia, durante la persecuzione nazista.


L'ippocastano si trovava (si trova ancora) di fronte alla casa di Anna. I suoi bellissimi rami si slanciavano fino alla finestra della soffitta dove lei era nascosta. L'albero racconta con parole semplici, chiare e dolci, ciò che vide: dall’arrivo della famiglia Frank, allo sguardo di Anna che sognava e sperava in qualcosa di meglio affacciandosi alla finestra, ai suoi occhi che lo scrutavano al di là del vetro, all’arrivo della polizia il 4 agosto 1944 per portare tutti via.



"Io, l’ippocastano del giardino al numero 263 di Prinsengracht, ho regalato a una ragazza di tredici anni, prigioniera come un uccello in gabbia, un po’ di speranza e di bellezza. A lei, che nel suo nascondiglio sognava di sentire sul viso l’aria gelata,il calore del sole e il morso del vento,con le mie metamorfosi ho regalato lo spettacolo delle stagioni."

 

L'albero di Anne - Irène Cohen-Janca, Maurizio Quarello - Orecchio Acerbo

martedì 26 gennaio 2016

Orizzonti



Oggi voglio mostrarvi un libro che narra una problematica di stretta e drammatica attualità, di cui è oggettivamente "difficile" parlare: la traversata dei profughi che fuggono dalle loro terre a mezzo di improvvisati barconi in cerca di una nuova speranza di vita, e che purtroppo spesso si tramutano in disastrosi naufragi, in cui molti di loro perdono la vita. 
 

Forse proprio per questo l'autrice, Paola Formica, ha scelto il "silenzio" delle parole per dare spazio alla capacità narrativa delle immagini. Per raccontare la realtà oggettiva, fisica ed emotiva di certe vicende, al di là dei pareri, delle opinioni, delle soggettive interpretazioni. Ecco allora che alcuni elementi corporei assumono particolare rilievo, si animano di spirito narrativo, sembrano quasi guizzare e muoversi all'interno delle pagine dell'albo illustrato.


Quelle pupille nere, che sembrano smarrirsi assediate dal bianco dilagante, quei piedi che si muovono rapidi in punta sulle sabbie lasciando impronte, il buio della traversata, i colori caldi e accesi delle tavole che si alternano cromaticamente tra loro; tanti piccoli silenti dettagli che imprimono vigore emotivo al racconto.


 Che nel caso in questione lasciano intravedere un lieto fine, la riuscita della traversata, la presunta accoglienza suggellata da quella conchiglia in cui sembra divenire possibile udire la voce del viaggio, soprattutto la voce dell'altro. Quello che viene da un lontano sempre più vicino.


"Orizzonti" è un silent book che non lascia indifferenti. E dopo averlo preso per mano e sfogliato, si resta impastati di quella sabbia, di quel mare, di quelle sensazioni in gola, che solo un'orizzonte ignoto, carico di poche speranze e tante paura può lasciare. Perché l'orizzonte è uno stato dell'animo; sulla base del proprio vissuto e del proprio cammino, ognuno si cuce addosso il suo.


Orizzonti - Paola Formica - ‪Carthusia

Finalista al "Silent Book Contest 2014"