sabato 30 dicembre 2017

Hamelin, la città del silenzio


Verso la fine del 1300 ad Hamelin, Hameln in Germania, 130 bambini sparirono nel nulla. La leggenda, quella poi ripresa dai fratelli Grimm, narra che si allontanarono dalla città seguendo un magico pifferaio. Nessuno è mai riuscito a scoprire la causa vera della sparizione. Forse la peste, forse l'emigrazione, forse un'inondazione, forse la Crociata dei fanciulli. Della vicenda, però, si hanno testimonianze. Nel museo della città è esposta ancora oggi la riproduzione di un'antica vetrata della chiesa che raffigura un pifferaio seguito dai bambini. La finestra originaria risaliva al 1300. La stessa storia racconta un'iscrizione su di un antico palazzo, da tutti chiamato Rattenfängerhaus, la casa del cacciatore di topi. Ancora oggi ad Hamelin, in Bungelosenstraße, la via senza tamburi, è vietato cantare e suonare.


( .. accendo una candela e spengo la luce in camera. Poi mi dirigo verso lo stereo e metto un po' di musica. Parte un giro di chitarra dal vago sapore medievale, presto accompagnato dal sibilo di un flauto dolce. Siamo io, il buio e la luce, la musica e un libro. Che inizio a sfogliare ..)  



Le strade di Hamelin. Deserte e silenziose. Pochi, e frettolosi passanti la percorrono. Nemmeno un bambino. A noi ragazzine e ragazzini è vietato scendere per strada. Chiusi nelle nostre stanze, non possiamo giocare con gli altri bambini. Ci si consola con i giocattoli che il nonno costruisce per noi. E' il più vecchio del  paese, e ben conosce il motivo di quel divieto. Un tempo le vie e le piazze di Hamelin erano piene dello scorrazzare e del vociare di bambine e bambini. Ma disturbavano i grandi e così fu loro vietato di scendere in strada. Tristi, rimasero chiusi tra le quattro mura di casa fino a quando, una notte, sentirono la dolce e allegra voce di un piffero. Scesero tutti. Tutti seguirono il pifferaio. Tutti scomparvero. Tutti tranne il nonno. Era zoppo, e non riuscì a seguirli. Da allora anche la musica fu vietata, e Hamelin divenne la città del silenzio. Da allora non più una nota è risuonata in città. Spesso, prima di dormire, ripenso al racconto del nonno. Anche stasera. Ma ecco, attraverso una finestra, giungere dalla strada la dolce e allegra melodia di un organetto ...



Alice Barberini ha un dono straordinario: con le sue tavole riesce a fermare il tempo. Ti lascia li, sospeso, come un bambino alla finestra, nell'attesa che si compia qualcosa di straordinario. La mia sospensione è iniziata due anni fa, la libreria aperta da poco, e io giravo per gli scaffali a studiarmi i libri. Quando presi in mano "Il cane e la luna", un albo, all'epoca, appena edito. Ne rimasi totalmente invischiato. Quella tavola, il muso del cane raccolto tra le mani del bambino. Sono rimasto orfano di quegli occhi, e quello sguardo, per due anni. Fino a quando non è uscito "Hamelin". Che di occhi e sguardi, trabocca, come una fonte benedetta. Se la narrazione non è fatta di sole parole, ma anche di sguardi, e gesti, questo libro è il più bel dono che un albo illustrato ci abbia portato in dote in questo 2017.



(... mentre sfoglio il libro, la canzone prosegue, quando ascolto cantare queste parole..)




And it's whispered that soon, If we all call the tune,
Then the piper will lead us to reason
 And a new day will dawn  
For those who stand long
And the forest will echo with laughter.



"Hamelin" è un albo straordinario, in cui trovi di tutto; la luce e il buio, la musica e il silenzio, la solitudine e il gioco; la tristezza che esplode in gioia; la potenza arcana del fiabesco; la cura in ogni dettaglio. Le parole, poche, ingegnose, illuminano e scaldano mentre sgattaiolano lungo le strade deserte; alcune restano impresse sui muri, come targhe, o penzolano sulle insegne. 


Un mirabile gioco di inquadrature che si alternano: il quadro, la fotografia e il cortometraggio. C'è, soprattutto, la poetica degli occhi e degli sguardi, in tutta la sua eloquenza narrativa: il tempo che si arresta e cristallizza ogni ricordo; la solitudine e il divieto che li velano di tristezza e mestizia; il guizzo esplosivo della felicità, i sorrisi e la corsa in strada, in un piccolo paese che torna a popolarsi di giochi, musica e voci.


( ... entra la batteria, il canto prosegue, ascolto queste parole.....)


Your head is humming and it won't go
In case you don't know
The piper's calling you to join him
Dear lady, can you hear the wind blow
And did you know
Your stairway lies on the whispering wind.



In "Hamelin" respira il mondo delle piccole cose che rendono triste, o felice, un bambino. La potenza di questo albo, a ben vedere, sta proprio in questo. Perché Hamelin alberga nel fondo dei nostri animi. Nei rifiuti ricevuti, nelle concessioni accordate, nei giochi condivisi, negli spazi conquistati, in tutto questo e altro, i ricordi si arrestano, o tornano a correre lungo le strade del pensiero. In "Hamelin" si rinnova e si tramanda il nostro spirito fanciullo. 



Per questo è una straordinaria finestra per osservare, e comprendere, il meraviglioso mondo dell'infanzia. Il tutto impreziosito da alcuni dettagli che segnano la finezza interpretativa dell'animo, nella mano di chi l'ha disegnato. Il cane che appoggia la zampa sulla schiena del bambino, mentre questi osserva la luce esterna filtrare dalla finestra; il cane che osserva la luna piena, nel mezzo della strada deserta; il ranocchio giocattolo, che dalla finestra osserva, anch'esso, la luna, mentre nel letto dorme la bambina. 



(.. la canzone è finita, e io lascio parlare il libro ..)

Poi un giorno, l'uomo con la macchina che suonava mi venne vicino. Suonò per me, e io scoprii di non avere paura. La sua musica mi rendeva felice. Ma dalla finestra, il nonno sentì la melodia di molti anni prima. Scese in strada e con il bastone fece a pezzi la macchina che suonava.

"Perché quella notte non mi hai portato con te?" gridò.

L'uomo rispose: "Per far giocare ancora i bambini che sarebbero nati in questa città".

"E i bambini di quella notte, dove sono andati?", chiesi io.

"In tutta la musica del mondo", mi rispose l'uomo.



C'era una volta, e c'è ancora, una città di nome Hamelin. A ricordarci che la vita concede a tutti una seconda possibilità. E nella proibizione non passa la strada per la felicità. 



N.B. La canzone citata, di cui sono riportati alcuni versi, è la celebre "Stairway to Heaven" dei Led Zeppelin. 

Hamelin, la città del silenzio - Alice Barberini - Orecchio Acerbo

venerdì 29 dicembre 2017

Tartarughe all'infinito


"Ma stavo cominciando a imparare che la vita è una storia che si racconta di te, non una storia che racconti tu. Ovvio, tu fai finta di essere l'autore. Devi. Pensi: Adesso decido di andare a pranzo, quando quel bip monotono risuona dall'alto alle 12:37. Ma in verità è la campanella a decidere. Tu credi di essere il pittore, invece sei la tela".


"Tartarughe all'infinito" di John Green, edito in Italia da Rizzoli, con la traduzione di Beatrice Masini, è un romanzo che mette le sue ragioni nero su bianco, fin dall'inizio; ma è anche un chiaro esempio di come la "scrittura", talvolta, surclassi la "storia", che resta sullo sfondo.

"Così ho provato a farlo, ma la spirale di pensiero ha continuato a stringersi. Ho sentito il dottor Singh dire che non dovevo prendere il telefono, che non dovevo continuare a cercare le stesse domande, ma l'ho preso lo stesso, e ho riletto l'articolo su Wikipedia dedicato ai microbioti umani. Il problema di una spirale è che se la segui dall'interno non finisce mai. Continua a stringersi, all'infinito".

Esiste un vortice che fagocita tutto, il resto è solo polvere agli occhi. Il vortice è la mente di Aza Holmes, la protagonista sedicenne, che soffre di disturbo ossessivo - compulsivo, un disturbo mentale che la induce a ripetere in modo ossessivo certi comportamenti. Nella fattispecie, Aza si è inflitta con l'unghia una ferita a una mano, che riapre e disinfetta in continuazione. E' ossessionata dall'idea di prendere infezioni, causate dal prolificarsi di batteri; questo pensiero la induce a controllarsi continuamente la ferita, disinfettarla, addirittura ingerire direttamente dalla bocca il disinfettante nei momenti di crisi nervosa acuta. Aza è in cura da una specialista, ma non sembra trarre giovamento dalle sedute cui si sottopone. Nella storia ideata da Green, Aza viene convinta dall'amica Daisy ad indagare sulla scomparsa del miliardario  Russell Pickett, in quanto è stata offerta una ricompensa di 100 mila dollari a chi saprà fornire indizi utili al suo ritrovamento. Russell Pickett è il padre di Davis, amico d'infanzia di Aza, fino a quando le vicende della vita non hanno portato le due famiglie ad allontanarsi. Aza e Davis, due caratteri affini, introversi, nascondono voragini interiori. Già da bambini parlavano poco, ma si capivano.

"Le avrei detto che io e Davis non avevamo parlato molto, nemmeno ci guardavamo, ma non importava, perché guardavamo lo stesso cielo insieme, che comunque è forse più intimo del contatto visivo. Chiunque può guardarti. E' raro trovare qualcuno che vede lo stesso mondo che vedi tu."


Davis ha la passione per l'astronomia. Le contemplazioni all'aperto della volta celeste, che i due ragazzi condividono, disegnano i momenti di maggior intensità lirica ed onirica del romanzo.  Attraverso l'osservazione dei corpi celesti, Davis insegna ad Aza a guardare con sereno distacco al proprio passato; perché se quelle costellazioni distano anni luce, quello che vedono, è solo un riflesso di qualcosa che è già accaduto.

"Ho pensato a quando mi aveva chiesto se ero mai stata innamorata. E' un'espressione strana in inglese, in love, come se l'amore fosse un mare in cui anneghi o una città in cui vivi. Non sei in nient'altro; in amicizia, in rabbia, in speranza. Non si dice così. Puoi solo essere in love. E volevo dirgli che se anche non ero mai stata in love, sapevo che cosa si prova ad essere in un sentimento, non esserne solo circondata ma anche intrisa, come quando mia nonna diceva che Dio è dappertutto. Quando i miei pensieri prendevano la spirale, io ero nella spirale e della spirale. E volevo dirgli che l'idea di essere in un sentimento dava linguaggio a qualcosa che prima non sapevo descrivere, creava una forma per questa cosa, ma non riuscivo ad immaginarmi come fare a dire queste cose ad alta voce."

Davis è amore e poesia. Scrive su un blog. I post dedicati ad  Aza sono introdotti con delle citazioni tratte da "La Tempesta" di William Shakespeare. Davis è una spirale che si apre verso l'esterno, e dona ossigeno alla mente di Aza. Anche se dura poco. Poi sprofonda di nuovo.

"Ma la cosa veramente spaventosa non è girarsi e rigirarsi nella spira che si espande; è girarsi e rigirarsi nella spira che si stringe. E' venire risucchiati da un mulinello che riduce e riduce il tuo mondo finché ti ritrovi a girare senza muoverti, bloccato come dentro una cella di prigione che è grande esattamente come te, finché alla fine non capisci che non sei davvero in una cella. La cella sei tu".


Il pregio del libro sta nella qualità della scrittura di Green, nella reiterata capacità di simulare i movimenti di quella spirale che attanaglia la mente di Aza, facendo calare il lettore nelle sue tormentate vicende psichiche. Mentre leggi, senti lo spazio stringersi e il respiro affannarsi. In una parola, provi "empatia". Aza, un nome conciso che percorre tutto l'alfabeto, andata e ritorno, richiama la forma di un triangolo equilatero, che si staglia verso il cielo. E noi ci incamminiamo sul solco del suo cammino interiore fatto di Inferno, Purgatorio, e piccoli scampoli di Paradiso, verso l'ultimo atto del romanzo, che ci riserva un poderoso trittico, dall'accento cosmico. E penso a Dante, alla volontà caparbia nell'alzar la testa a cercar le stelle.

"E quindi uscimmo a riveder le stelle" - Inferno, Canto XXXIV, verso 139

"Ci siamo fatti un nido di silenzio, e io ho avvertito la vastità del cielo sopra di me, l'inimmaginabile enormità di tutto: guardare Polaris e capire che la luce che vedevo aveva 425 anni, e poi guardare Giove, a meno di un'ora di luce da noi. Nel buio senza luna eravamo solo testimoni della luce, e ho sentito una scheggia di ciò che doveva aver avvicinato Davis all'astronomia. Si prova una sorta di sollievo nell'avere davanti a sé la propria piccolezza pura e semplice, e ho capito una cosa che Davis doveva già sapere: che una spirale diventa infinitamente stretta via via che la segui verso l'interno, ma diventa anche infinitamente larga via via che la segui verso l'esterno. E sapevo che avrei ricordato quella sensazione, sotto il cielo diviso, allora, prima che i meccanismi del destino ci frantumassero per ridurci a una cosa o l'altra, prima, quando potevamo ancora essere tutto. Stando li distesa ho pensato che avrei potuto amarlo per il resto della vita. Ci amavamo - forse non l'avevamo mai detto, e forse non eravamo mai stati innamorati, però era una cosa che sentivo. Io lo amavo, e ho pensato forse non lo rivedrò mai più, e mi mancherà per sempre, e non è terribile?"

"puro e disposto a salire a le stelle" - Purgatorio, Canto XXX, verso 145

"Ma alla fine non è terribile, perché conosco il segreto che la me  distesa sotto quel cielo non poteva immaginare: so che quella ragazza sarebbe andata avanti, che sarebbe cresciuta, che avrebbe avuto dei figli e li avrebbe amati, che nonostante l'amore sarebbe stata troppo male per occuparsi di loro, che sarebbe finita in ospedale, sarebbe migliorata, e poi sarebbe stata male di nuovo. So che uno strizzacervelli direbbe "Scrivilo come sei arrivata fin qui". Così lo scrivi, e mentre lo scrivi capisci che l'amore non è una tragedia o un fallimento, ma un dono. Ti ricordi il primo amore perché ti mostra, ti dimostra che puoi amare ed essere amato, che a questo mondo non ci si merita niente tranne che l'amore, che l'amore è come diventi una persona e perché."

"l'amor che move il sole e l'altre stelle" - Paradiso, Canto XXXIII, verso 145

"Ma sotto quei cieli, la tua mano - no, la mia mano - no, la nostra mano - nella sua, non lo sai ancora. Non sai che il quadro della spirale è dentro quella scatola sul tuo tavolo da pranzo con un post-it appiccicato sul retro della cornice: "L'ho rubato ad una lucertola per te. D". Non puoi sapere che quel quadro ti seguirà da un appartamento all'altro e poi alla fine in una casa più grande, né che decenni dopo sarai così fiera che Daisy continui ad essere la tua migliore amica, che crescere dentro vite diverse vi renderà solo ancora più accanitamente fedeli l'una all'altra. Non sai che andrai al college, ti troverai un lavoro, ti farai una vita, la vedrai disfatta e ricostruita. Io, nome proprio singolare, sarei andata avanti, seppure sempre al condizionale. Ma tu non sai ancora niente di tutto questo. Noi stringiamo la sua mano. Lui risponde alla stretta. Voi fissate lo stesso cielo insieme, e dopo un po' lui dice "Devo andare", e tu dici "Addio", e lui dice "Addio, Aza", e nessuno dice mai addio a meno che non voglia rivederti."

Sai che c'è Aza? Non importa che tu sappia baciare o meno. Tu sai vedere attraverso le  nuvole.

"Tartarughe all'infinito" - John Green, traduzione di Beatrice Masini - Rizzoli

sabato 23 dicembre 2017

Tutta colpa delle meduse


Tu

Le parole non dette.
Le parole temute.
Le parole perdute.
Sul foglio bianco
piovono occhi scuri
che il fondo allagano.

Alessandro Moscetti - La fatalità in braccio

Una manciata di versi che scrissi nel 1994, confluita in una raccolta dieci anni dopo. Per parlare di quella difficoltà nel comunicare che genera incomprensione, che sia dovuta a timidezza o timore, paura o vergogna, poco importa, è l'effetto che conta; quelle parole non dette, trattenute, che ti trascinano a fondo, creando una zona di oscurità che ti risucchia come un buco nero da cui è impossibile risalire. Non ti resta che contemplare un foglio di carta e innaffiarlo di lacrime. E puoi scriverci qualunque cosa su quel foglio, pensieri, poesie, persino una ricerca sulle meduse, se questo serve a fornirti una "ragione" di quanto accaduto, perché tu non puoi rassegnarti al fatto che "a voltele cose succedono e basta". Non puoi accontentarti di questa risposta.


Mentre leggevo questo libro ho avuto spesso la sensazione di muovermi dentro un acquario, dove osservi il mondo vivere e respirare, da dietro un vetro. E mi sembrava straordinario pensare che, quando coli a picco, tutte le cause che ti hanno portato al punto di non ritorno, trascinandoti a fondo, d'improvviso ti appaiono davanti in tutta la loro leggerezza,  sospese e fluttuanti, liquide, limpide e chiare, come pesci che danzano mentre nuotano. Le parole non dette, i gesti abortiti, tutto quello che sembrava difficile, pesante, impossibile da esternare, è li che galleggia, evidente, accompagnandoti dolcemente verso il baratro che ti sei scavato.


"Tutta colpa delle meduse" coniuga le oscurità alle trasparenze, come una ferrovia a doppio binario, dove un treno sale e contemporaneamente l'altro scende, nel senso opposto. Ed è scritto di pari passo, i capitoli della ricerca, della motivazione, dell'analisi, che procedono avanti, dritti e ostinati, si alternano a quelli del ricordo, della memoria, di quanto accaduto, che procedono in senso inverso, e tornano indietro. Ogni fase ha la sua scrittura distinta. E' un libro di una feroce coerenza, anche nella costruzione tipografica. La narrazione è divisa in blocchi, seguendo lo schema di una ricerca scientifica, che è poi quella che l'insegnante di scienze. sig.ra Turton, assegna alla classe della protagonista Suzy Swanson: Obiettivo, Ipotesi, Contesto, Variabili, Metodo, Risultati. Conclusione. Una ricerca che Suzy decide di svolgere sulle meduse, perché deve darsi una spiegazione plausibile alla morte della sua amica Franny. Perché lei era un'esperta nuotatrice, non può essere annegata; qualcosa o qualcuno, deve averci messo lo zampino, o il tentacolo. Magari una Irukandij.


Per Suzy la ricerca sulle meduse diventa una ragione di vita, perché tra lei e Franny il rapporto è ormai incrinato; e lei non può andarsene così senza preavviso, prima che si siano chiarite, una volta per tutte. Il viaggio nella oscurità per Suzy inizia molto prima della morte della sua amica; coincide con il momento in cui diventa trasparente ai suoi occhi. Da bambini si fanno grandi promesse, "saremo amiche per sempre". Poi si entra nell'adolescenza con i suoi turbini, e ci vuol poco a scompaginare rapporti cristallizzati. Basta invaghirsi di un ragazzo, cambiare scuola, frequentare amiche fighe e trendy, e vengono a galla tutte le differenze di carattere. Suzy, così analitica da apparire fin troppo meticolosa, vive nel regno delle proporzioni e delle equivalenze, dove tutto ha un peso e un'unità di misura, compresi i battiti del cuore, da tramutare in secondi, minuti, anni. Invece Franny, sembra ormai curarsi solo di gonne, trucchi, acconciature e scarpe. Ci prova Suzy a star vicino alla sua amica, anche se le costa fatica, ma ogni tentativo sembra goffo e vano, finendo per l'allontanarla sempre di più. "Uccidimi se mai dovessi diventare così", "Mandami un segnale. Tipo un messaggio segreto", "Qualcosa di eclatante. Qualcosa che attiri veramente la mia attenzione". E lo compie Suzy Swanson il gesto eclatante. Poi cala il silenzio. Un giorno, due, poi più niente. Se n'è andata Franny Jackson, per sempre. Nulla sarà più come prima. Suzy perde la parola, le resta un carteggio interiore con sé stessa.


"Tutta colpa delle Meduse", per dirla con Battiato, è "un soffio al cuore di natura elettrica". Con un incipit memorabile, che lascia a bocca aperta.

"Una medusa, se la guardi abbastanza a lungo, comincia a sembrarti un cuore che batte. Non importa a quale specie appartenga: l’Atolla rosso sangue con le sue luci lampeggianti a fare da richiamo, la varietà con l’ombrello a decorazioni floreali o la medusa lunare quasi trasparente, l’Aurelia aurita. È il fatto che pulsano, il modo in cui si contraggono rapidamente per poi rilasciarsi. Come un cuore fantasma: un cuore attraverso cui riesci a vedere dritto in un altro mondo dove ciò che hai perduto – qualunque cosa sia – è andato a nascondersi.
Le meduse non ce l’hanno nemmeno un cuore, certo; non hanno cervello, ossa, sangue. Ma osservatele per qualche istante.E le vedrete pulsare.
La signora Turton Dice che, se una persona vive fino a ottant’anni, il suo cuore batte tre miliardi di volte. Ci stavo pensando, cercando di immaginarmi un numero così grande. Fate il conto alla rovescia di tre miliardi di ore, gli esseri umani  moderni non esistono: solo uomini dalle caverne dagli occhi infossati, tutti peluria e grugniti. Tre miliardi di anni, e la vita stessa a malapena esiste. Eppure eccolo qui, il tuo cuore, che fa il suo lavoro incessante, un battito dopo l’altro, tutta la strada fino a 3 miliardi di battiti. Solo se vivi così a lungo, però."

Si sta in apnea con un avvio del genere. L'evidenza scientifica sposa l'eloquenza narrativa che si traduce in musica, allora i pensieri fluttuano, parole e immagini danzano in acqua in un nuoto sincronizzato. Poi emergi e riprendi fiato.

"Tua madre è da qualche parte accanto a te; sta scattando una foto, e tu sai che dovresti voltarti e sorriderle. Invece non lo fai. Non ti volti, non sorridi, continui solo a guardare il mare, e nessuna di voi due ha idea di cosa conti in questo momento o di cosa stia per succedere (e come potreste?).
E per tutto questo tempo il tuo cuore continua semplicemente a battere. Fa quello di cui hai bisogno, un battito dopo l’altro, finché non riceve il messaggio che è tempo di fermarsi, che potrebbe essere fra pochi minuti e tu nemmeno lo sai.
Perché certi cuori battono solo circa 412 milioni di volte.
Che potrebbe sembrare un numero enorme.
Ma la verità è  che questo ti fa arrivare malapena ai dodici anni."

E allora capisci che il tempo speso a inseguire un rimorso, a rimpiangere quello che non è stato, è tutta vita che getti nel fondo del tuo mare interiore. Un mare bramoso e oscuro. Ma è dal fondo del mare che si anela la luce. E i libri potenti, prima o poi, vengono sempre a galla. 

"Tutta colpa delle meduse" - Ali Benjamin - Il castoro

venerdì 15 dicembre 2017

Frank Button

Frank Button - 3° compleanno di Bibliolibrò
Scivolai in mare aperto.
La volta si accese di mille pianeti.
Stavo per affondare, quando un fascio di luce
prese ad abbracciarmi tenendomi a galla.

Tavola originale di Michela Gastaldi 
Sotto il cappello impastava polvere di stelle e sudore. Perché per sognare non basta chiudere gli occhi, occorre lavoro e disciplina, e superare quei vuoti che la vita ti tende come fili sospesi, da attraversare in punta dei piedi. E quando sei la sopra, non puoi farti distrarre dal  chiasso del mondo, esiste una sola voce, la tua.

Tavola originale di Michela Gastaldi

Un albo di alta sartoria narrativa. Perché Frank Button non è semplicemente un pupazzo di stoffa e bottoni che insegue il mondo dei sogni attraversando i desideri degli uomini; Valentina Rizzi si è messa li con forbici, ago e filo a tagliare e cucire scampoli di visioni e significati per confezionare un nuovo abito alla sua poesia.  


L'intensità onirica mostrata in "Taccuino della notte" e "Vita", qui è messa al servizio di una storia. Perché la "rêverie", si sa, è una terra di confine mistica e ostica, non sempre ben vista, talvolta sa di equilibrismo sul filo sospeso e affilato della parola. Sebbene in "Vita" non ci sia una parola fuori posto o vana, e ogni frase assuma un valore paradigmatico, dal sapore filosofico. E "Taccuino" vada molto oltre l'episodica frammentarietà diaristica sulla scia di un viaggio che suona come "canto notturno", segnando una nuova e inedita tappa nei confronti della poesia al servizio all'albo illustrato. 

Dedica di Michela Gastaldi
Ma in "Frank Button" non c'è solo una "storia" luccicante di poesia, ma anche tanto "teatro" che è il mondo da cui Valentina proviene, e su cui ha costruito il suo percorso che, da narratrice orale, l'ha progressivamente trasformata in scrittrice. Quest'albo segna l'ideale chiusura di un cerchio autoriale, ed editoriale. Che ben rappresenta, e sintetizza, Bibliolibrò, editore errante con poche pubblicazioni dalla fortissima "caratterizzazione". 

Dedica di Michela Gastaldi
Poi c'è Michela Gastaldi, con le sue illustrazioni interamente a matita, che solca i fogli di una bellezza arcana, dinamica, autentica, ferrea. C'è lo slancio dei sogni e la disciplina della vita, che è il sale di tutte le storie; dal grigio fondo del mare si staglia una luce abbagliante, tracciando suggestioni orlate di memorie. Questo albo sussurra quale grande spettacolo sia la vita. Noi siamo quel sogno che anela di essere vissuto.   

Tavola originale di Michela Gastaldi
Giunto fuori,
proprio mentre iniziavo a dubitare
persino della sua esistenza, 
a un tratto la ritrovai.

Alta, 
in un cielo sfuggente,
splendeva tra la neve
in mezzo al niente.

Dedica di Michela Gastaldi a "Storie a colori"
Ci sono i sogni che finiscono in un libro, e ci sono libri che coronano un sogno, autoriale ed editoriale.

Poi ci sono i libri belli come un sogno, che tieni in tasca per mesi, e poi tiri fuori in un giorno di pioggia, come un fazzoletto per asciugarti le lacrime. E allora capisci perché le sue pagine luccicano, e sanno di sale. E comprendi a cosa servono le storie. Ma non proprio tutte, solo alcune.


Frank Button - Valentina Rizzi, Michela Gastaldi - Bibliolibrò

martedì 12 dicembre 2017

Hachiko, il cane che aspettava


"Questa era la routine settimanale del professor Eisaburo: andava ogni mattina alla stazione accompagnato da Hachiko, passava la giornata alla Todai, tornava in treno, lo trovava alla stazione di Shibuya e nei fine settimana passeggiavano insieme, finché le gambe lo reggevano. E quand'era di nuovo lunedi, prendeva il treno di buon mattino mentre Hachiko tornava a casa e passava la giornata a poltrire e a dormicchiare finché l'orologio svizzero che aveva dentro lo avvisava che stava arrivando il treno da Tokyo. E allora, come se qualcuno avesse acceso la miccia di quel razzo supersonico, galoppava verso la stazione per aspettare il professore, quasi ne andasse della sua vita."


La storia di Hachiko è nota, ha commosso generazioni di persone sparse in tutto il mondo, vale la pena spendere due parole per ricordarla. Hachiko era un cane di razza akita che visse 11 anni (10 marzo1923 - 8 marzo 1935). Aveva pochi mesi di vita quando andò a vivere nella casa del Professor Eisaburo Ueno, nel quartiere di Shibuya, sostenendo un viaggio di 500 km in treno. Il professor Ueno era pendolare per esigenze di lavoro (era professore presso il Dipartimento Agricolo dell'Università Imperiale di Tokyo), quindi ogni mattina si recava in stazione a prendere il treno, e il cane lo accompagnava ogni mattina; e ogni pomeriggio, quando il professore tornava dalla giornata lavorativa, tornava in stazione ad attenderlo. 


Il 21 maggio del 1925, il Professore Ueno morì improvvisamente e inaspettatamente, colto da ictus mentre teneva una conferenza all'Università di Tokyo. Hachiko trascorse i rimanenti 10 anni della sua vita ad attendere il suo ritorno, in stazione. Ogni giorno, alla stessa ora, si metteva nella piazza della stazione per vederlo scendere dal treno. Gli abitanti del quartiere incaricarono lo scultore Teru Andu di fargli una statua, che fu inaugurata nel 1934, alla cui inaugurazione assistette il cane stesso. Hachiko morì di filariosi l'8 marzo del 1935, nella stessa piazza dove aspettò invano, per anni, il professor Ueno. La statua di Hachiko venne fusa durante la Seconda guerra mondiale; nel 1948, Takeshi Andu, figlio di Teru, ricevette la commissione di realizzare una nuova statua raffigurante il cane, da posizionarsi nello stesso posto della precedente. Ogni 8 marzo, anniversario della sua morte, si si rende omaggio ad Hachiko nella piazza di Shibuya, e la statua si riempie di fiori, Hachiko venne seppellito in una casetta di pietra costruita ai piedi della tomba del professore, nel cimitero di Aoyama, dove permangono alcune sue ossa. Anni dopo venne imbalsamato, e lo si può vedere al Museo Nazionale di natura e Scienza di Tokyo. La storia di Hachiko fu presa a spunto per alcuni racconti per bambino, e sulla sua vita sono stati realizzati due film: "Hackiko monogatari" (1987) e l'adattamento nordamericano che ebbe come protagonista l'attore Richard Gere, "Hachiko, il tuo migliore amico".


La struggente storia di Hachiko si riempie di nuove suggestioni in questo romanzo scritto dall'autore  catalano  Lluis Prats Martinez, illustrato dall'artista polacca Zuzanna Celej, edito in Italia da Albe Edizioni. Organizzato sotto forma di un ipotetico diario, il racconto è diviso in due parti: la prima si svolge a partire dal Gennaio del 1924 fino al Maggio del 1925, e ripercorre il breve ma intenso periodo di convivenza tra il cane e il professore, fino al momento della sua morte; un anno e mezzo ricco di spunti poetici, in cui i due costruiscono il loro simbiotico rapporto, scandito attraverso le lunghe passeggiate nel parco, i discorsi fatti dal professore al cane, e che lui sembra intimamente comprendere, rispondendo con gli sguardi.

".. il professore Ueno uscì in giardino, dove Hachiko guardava le stelle. Si sedette accanto a lui e lo accarezzò. La notte era nera e fresca, ma talmente limpida che si potevano vedere migliaia di stelle tremanti al buio.

"Vedi le Pleiadi che illuminano il cielo?" disse il professore indicando in alto. "Questo vuol dire che si avvicina il momento di affilare le falci. E quando si spengono, bisogna usare l'aratro, perché staranno lontane circa quaranta giorni; le viti si devono potare quando Arturo sorge dal mare, e la vendemmia inizia quando Orione e Sirio arrivano a metà del cielo".

Hachiko girava la testa all'insù e poi l'abbassava per guardarlo, come se capisse i suoi discorsi. Forse non capiva niente, ma gli bastava la voce grave del suo padrone che lo coinvolgeva e gli raccontava tutto quelle cose".

La narrazione si fa strada attraverso suggestivi scorsi poetici in cui respira il battito della natura, nell'alternarsi delle stazioni; il racconto è impreziosito dagli acquerelli vividi, toccanti, soavi. Il cane, quell'ultimo giorno, respira il presagio dell'imminente morte, e tenta di trattenere il proprio padrone nel tentativo di impedirgli di uscire.


La seconda parte del racconto, dalla morte del professore alla morte del cane, ripercorre i dieci anni in cui Hachiko si reca puntualmente in stazione ad aspettare il ritorno del proprio padrone. La vedova di Ueno si trasferisce, e il cane viene dato in affidamento, a persone insensibili che lo maltrattano, e da cui fugge, tornando in stazione, sotto in vagone ferroviario che elegge a rifugio. Ogni giorno, alla stessa ora, per dieci anni, il cane attende il fatidico treno. Hachiko viene idealmente adottato dalla comunità che, commossa da tanta amorevole ostinata fedeltà, gli dona qualcosa per sfamarsi, lo intrattiene con alcune carezze, opponendosi al tentativo di trasferirlo al canile. Se la prima prima parte del libro scorre più ipnotica e circolare, la seconda procede più lineare e scossa, fino all'atto finale, di una poesia musicale, che come neve al sole si scioglie in lacrime. Per me è come una sinfonia; o la esegui integralmente, o niente. 


"A mezzanotte la neve incominciò ad ammucchiarsi intorno a lui, ma Hachiko rimase disteso davanti alla porta. Il silenzio che accompagna la solitudine era tagliato da un vento affilato come un coltello, che gli penetrava nel petto magro come un ago di sarta. Aveva gli occhi mezzi chiusi perché le raffiche di neve gli impedivano di vedere la porta, ma stava lì, nel caso quella fosse la sera scelta dal professore per ritornare. Aveva il naso ghiacciato e tremava. Era l'unico a non saperlo, ma la sua vita stava finendo, come una candela o come un bastoncino d'incenso che ha profumato il tempio e del quale restano solo le ceneri.


Ad un tratto, fra la nebbia invernale che avvolgeva i binari, sentì un fischio lontano. Era una locomotiva che avanzava lentamente in mezzo alla neve. Una cosa strana, perché l'ultimo treno era arrivato a Shibuya più di tre ore prima e alla stazione non c'era più nessuno, neanche il capostazione Sato, né la signora Shuto, né Ibuki, che se n'era andato maledicendo il freddo. Hachiko tentò di alzare un orecchio, ma il cuore gli batteva appena. La vita che ancora gli restava fuggiva al ritmo del treno che entrava in stazione sferragliando. Ma quello era un treno come mai se n'erano visti a Shibuya, perché era bianco e dorato. La locomotiva sembrava d'oro, i finestrini erano talmente luminosi da abbagliare e se qualcuno l'avesse visto avrebbe detto che le sue ruote erano fatte di cristallo. Neanche Hachiko lo vide, perché aveva già chiuso gli occhi per non aprirli mai più. Per qualche secondo non accadde nulla. Solo si sentirono i fischi del vapore che sfuggiva dalla locomotiva mentre frenava sul binario. Sembrava che da quel treno non fosse sceso nessuno, ma poi le nubi e la nebbia si dissolsero e si vide che il cielo era pieno di stelle, come macchioline sospese, azzurre e bianche. Nel preciso momento in cui Hachiko chiudeva gli occhi per non aprirli mai più, la porta della stazione si aprì lentamente e un bastone col puntale d'argento incominciò a battere sul selciato.

"Sei ancora qui Hachiko?" gli sorrise il nuovo arrivato. "Me lo aspettavo. Bravo. Mi dispiace che tu abbia dovuto aspettarmi un po' più del solito, oggi, ma ho perso il treno".


Hachiko aprì gli occhi e non credette a ciò che aveva davanti. Aveva aspettato dieci anni per ritrovarsi con lui, ma finalmente era lì, alla stazione. Il professor Eisaburo Ueno, Hachiko lo sapeva già, non si era dimenticato di lui. Ed eccoli lì, appena sceso da quel treno che aspettava da dieci anni. Hachiko tentò di guaire, ma non osò emettere alcun suono quando sentì una mano familiare che gli accarezzava il pelo.

"Su, andiamo", sussurrò il professore Ueno. "Oggi si che potrai accompagnarmi e salire sul treno. Ti avevo promesso che un giorno l'avresti preso, ricordi? E le promesse solenni si mantengono".

Hachiko si alzò tremando e lo seguì, incollato ai suoi pantaloni. Entrambi salirono passo passo sugli scalini della vecchia stazione di Shibuya, arrivarono sulla banchina e allora Hachiko vide per la prima volta il treno. Ma prima di salire, il professore si volse un attimo, perché da una casa vicina gli giunse una voce chiara, limpida e vibrante di una geisha che cantava una canzone popolare:

I fiocchi di neve cadono lentamente.
Cadono senza fine e si accumulano.
Tutte le montagne e i campi sono coperti
da candidi batuffoli di cotone.

"Senti la canzone, Hachiko? E' la signora Sasaki. Canta ancora molto bene. No, non fermati qui. Oggi vieni con me. Ricordi che un giorno ti ho promesso che saremmo tornati al mare? Quel giorno è arrivato. Era una promessa solenne, e queste non si rompono. Mai".

Hachiko guardò il padrone e con un saltello salì sul vagone dorato e si acciambellò in braccio a lui come aveva fatto quando aveva pochi mesi, e un'altra volta sentì il calore delle sue mani sul dorso. Ebbe paura per un attimo, perché quello era il primo ricordo del professore, un ricordo che veniva da un'epoca incerta, ma cosa importava? Il calore lo riempiva di nuovo da dentro.Il professore sorrise e Hachiko si addormentò all'istante mentre quelle mani lo accarezzavano. La locomotiva fischiò pigramente, annunciando che usciva dalla stazione diretta a sud, e il suo fumo riempì tutto il quartiere, mentre dense colonne bianche come la neve tingevano il cielo nerissimo di Tokyo.


Qualche ora più tardi, quando il sole cominciò a fare capolino tra la nebbia di quel nuovo giorno di marzo del 1935, quando i primi boccioli dei mandorli avevano incominciato a fiorire e le nevi del Fuji scintillavano nel crepuscolo, il capostazione Sato trovò Hachiko disteso davanti alla porta della stazione. Aveva trascorso lì la notte aspettando il professor Ueno; l'ultima cosa che aveva fatto in vita sua. Poi arrivò Ibuki, che rimase di sasso alla vista della scena. Insieme lo presero in braccio e si misero a piangere singhiozzando, perché Hachiko era freddo come un fiocco di neve. Quando lo deposero dentro alla stazione, il capostazione Sato si soffiò il naso e lo stesso fecero Ibuki, la signora Shuto, quando arrivò per aprire il suo negozio, la geisha Mio Sasaki, che tornava a casa, il padrone del negozio di alimentari Matsumoto e la pescivendola Fujiwara, perché li avevano informati di aver trovato Hachiko morto. A poco a poco si radunarono intorno al cane decine di viaggiatori. Molti, quel giorno, persero il treno. 

"Ha finito di aspettare", disse la signora Shuto, asciugandosi le lacrime. "L'attesa è terminata, Hachiko".

Ciò che nessuno di loro sapeva è che a molti, moltissimi chilometri dalla stazione di Shibuya, sulle sabbie dorate di una spiaggia infinita, passeggiava un vecchio professore di agricoltura, e al suo fianco, come il padrone gli aveva solennemente promesso, un cane correva allegro fra le onde, creando figurine di spuma e sale." 

Qui termina il viaggio di Hachiko nella vita terrena, e ne inizia un altro, tra le braccia dell'eternità.

"Hachiko, il cane che aspettava" - Lluis Prats, Zuzanne Celej - Traduzione di Alberto Cristofori - Albe Edizioni

mercoledì 6 dicembre 2017

Un bacio e addio


Si dice spesso, a proposito di Jimmy Liao, che i suoi libri dicano molte più cose di quante, in apparenza, ne mostrino in superficie. Questo è sicuramente vero, anche a proposito di questo libro. Se penso alla frase "Un bacio e addio", già immagino e sento il treno, sebbene né in copertina, tanto meno nel titolo, se ne ravvisi traccia alcuna. Eppure quelle quattro parole, apparentemente innocue, mi fanno pensare alle innumerevoli situazioni in cui ci si saluta in stazione, ogniqualvolta si parte per un lungo viaggio, dall'esito incerto. Scene intense che vorrebbero fermare il tempo, il bacio è qualcosa che cattura e trattiene, illusoriamente sospende: "resta qui", "vieni via con me", "non andare". Sono pensieri, sono emozioni, sono lacrime. Ci si fa il pieno dell'altro per portarselo dietro e dentro, oppure lasciarlo lì con noi sulla banchina, una volta partito il treno. Ma un bacio è solo un bacio, e quando il treno parte, ci si saluta definitivamente, tutto diviene lontano, distante, talvolta persino effimero, ed è "addio".


Ecco, io in questo titolo e in questo pensiero ci vedo tanto della poetica di Jimmy Liao, della sua commossa compostezza che tocca e trapassa, per attraversare indenni le varie stazioni della vita; perché ogni viaggio ha un senso e un significato, un origine e una destinazione, e sta a noi cercare di viverlo nel miglior modo possibile, facendo scorta di quello che resta, raccogliendo per strada quello che serve, facendo tesoro degli incontri e delle esperienze.


Il treno è un elemento fondamentale di questo albo, e non solo perché campeggia nella quasi totalità delle sue tavole. E' un elemento reale, nel viaggio del piccolo orfano e del suo cane, fino alla casa del nonno; è un elemento ideale, nel ripercorrere tappe emotive, sogni, incubi e paure, paesaggi e scenari interiori. Il treno è come la navetta di un telaio nel grande ordito della vita, dove Liao intesse la sua pregiata trama. Scorre dentro e fuori, avanti e indietro (avanti perché procede verso la sua meta, indietro perché ripercorre momenti di vita del protagonista).


Il treno che penetra il paesaggio si fa compenetrare al suo interno da momenti di riflessione ed elaborazione di quanto è accaduto, in un viaggio che segna la crescita del piccolo protagonista verso la propria consapevolezza. I paesaggi mescolano elementi reali a tratti immaginifici; si riconoscono campi olandesi e scorci da monte Fuji, che si alternano ad elementi favolistici e fiabeschi.


Animali rassicuranti come giraffe, gufi ed elefanti, vegliano sui sogni del piccolo Woody, lasciano il posto ai coccodrilli che ingoiano il treno, come oscure gallerie che spaventano, segnando il passaggio dal sogno all'incubo: Perché "avevo sentito dire che, una volta entrati  molti treni scomparivano misteriosamente". Ma è proprio nelle gallerie, nel suo alternarsi di fasci luminosi, di buio e luci, che il piccolo Woody scopre che la paura si può attraversare e lasciare alle spalle, lanciandosi in meravigliose cavalcate.


Il treno che solca i binari della memoria diventa un elemento rassicurante, all'interno delle carrozze si schiudono elementi di suggestione, barchette di carta che si spera arrivino in mare, perché "papà amava tanto il mare". Si sta caldi e al sicuro in quelle vetture, protetti, come dentro al grembo materno, al riparo dalle insidie della vita; tutto arriva filtrato, e rarefatto. E allora si viaggia attraverso gli arcobaleni e fin dentro le nuvole, dove mi chiedo se "potrò mai trovare il mio papà e la mia mamma".


Cantava De André, in Hotel Supramonte:

"Passera  anche questa stazione senza far male,
 passerà questa gioia sottile come passa il dolore"



Un albo formidabile che è un'esplosione di colori nella sinfonia delle emozioni, tra i "dimenticai", i "posso" e i "chissà, forse". Superando i paesaggi innevati di dubbi, il treno attraversa scaffali di libri, quadri di Mondrian, pianeti e cosmi, fino alla definitiva certezza di un abbraccio. Del nonno. 



Resta sul treno, la valigia dei ricordi. Ma il piccolo Woody è ormai cresciuto, e arrivato a destinazione; non ha più bisogno di tirarsi dietro il pesante fardello dei tristi ricordi.

"Nessuno può riportare sull'albero le foglie cadute. Soltanto la primavera può".

Nell'autunno della vita ci si spoglia delle certezze infrante, si aspetta che passi il rigido inverno, pensando ad una nuova primavera. Un bacio, e addio.


Una volta la mamma mi disse: "Se avrai la fortuna di viaggiare su un treno vuoto, un miracolo accadrà". Che i treni servono anche a questo. Talvolta è una scusa quella di raggiungere un luogo. Spesso sono un espediente per guardarci dentro, affacciati alla vita che ci scorre dinanzi gli occhi, dal finestrino. Perché in fondo, in questa vita, siamo soltanto persone in transito verso qualcosa, qualcuno, forse verso un altrove.

"Un bacio e addio" - Jimmy Liao - Camelozampa

Traduzione dal cinese di Silvia Torchio - Consulenza editoriale di Luca Ganzerla