giovedì 11 gennaio 2018

La figlia del guardiano


"Nessuna madre è seppellita davvero finché suo figlio non riesce a tirarsi fuori dalla sua tomba".

Forse è per questo che io ancora non riesco a farmene una ragione. Cinque anni fa, in questi giorni, mia madre si stava consumando come un fiammifero, divorata dalla malattia. E io ero li, che assistevo impotente. E l'impotenza alimenta un senso interiore di ingiustizia che si tramuta in rabbia. Ma la rabbia, da sola, non basta, ti da l'illusione di essere vivo, ma intanto ricaccia dentro il dolore, in gola, fino in fondo allo stomaco. E come fiele ti avvelena la vita. La rabbia è un carcere, ti imprigiona nella  sua cella, e ogni spiraglio  che mostra lo osservi attraverso le sbarre.

Il 20 gennaio ricorre il quinto anniversario della morte di mia madre, e io mi trovo, per puro caso a leggere questo libro. Un libro che inizia in modo plumbeo, all'interno di una voliera per farfalle che un tempo fu la "Stanza della Quiete" di un cercere. Il libro è ambientato nel 1959, e ha un avvio scoppiettante grazie alla sua protagonista, "Cammie" O' Reilly, soprannominata "Tornado" per la sua indomita esuberanza, perché è oggettivamente difficile spuntarla con lei, e dove passa, soprattutto quando è infuriata, lascia tangibili segni. Cammie è figlia del direttore del carcere di Two Mills, e trascorre le sue giornate d'estate a briglia sciolta, usce liberamente, oppure trascorre parte del tempo in penitenziario stando a contatto con le detenute donne, quando sono in cortile. Il padre gli concede molta libertà, perché la sua posizione di responsabilità lo tiene spesso impegnato, un poco forse perché lo ritiene il modo migliore per farla crescere, evitando che si crogioli nel dolore. Cammie ha perso la madre che era ancora in fasce. Stava attraversando la strada quando un furgoncino l'ha falciata, lasciandole giusto il tempo di lanciare il passeggino dall'altra lato e salvargli la vita. Cammie non ha conosciuto sua madre, ma la cerca ovunque. Nei gesti delle madri degli altri, che osserva, ma la cerca, soprattutto, tra le detenute del carcere. Una di loro, Eloda Pupko, gode di un regime di libertà speciale all'interno del penitenziario, è una detenuta "fidata" che fa i servizi nell'appartamento di Cammie e di suo padre, le prepara da mangiare, prova a farle la treccia, anche se i capelli sono ancora troppo corti; è dall'intimità di questo gesto, molto materno, che Cammie si mette in testa che Eloda "deve" diventare sua madre. Impresa tutt'altro che facile, perché Eloda, nella sua condotta irreprensibile, appare glaciale, in grado di camuffare ogni emozione. Scatenando spesso la rabbia di Cammie che la provoca, talvolta a parole la umilia, senza risultato alcuno. 

Il romanzo procede scoppiettante per due buoni terzi dietro le peripezie di Cammie, poi accade qualcosa che ti stringe un nodo in gola. Boo Boo, una detenuta di colore "grossa", dalle lunghe unghie laccate rosse, piena di vita, che le racconta storie strampalate sui furti e sull'amore, che la fanno ridere, un giorno si impicca con un tappeto verde. A Cammie viene a mancare anche quel poco di ossigeno rimasto ad arieggiare le sue giornate, resta solo la rabbia, e il livore verso una vita dal disegno incomprensibile che puntualmente le toglie quel poco d'amore che le piove addosso. Diventa intrattabile con tutti, puntualmente distrugge quel poco di buono che riesce a creare. Con l'amica Reggie, con suo padre, con Eloda, con chiunque la circonda e si trova, per caso, a sbarrarle la strada. La misura ormai è colma, e Cammie soffoca. La rabbia ristagna, là dove sgorga.

"E' ora che tu vada li, Cammie".

"Lo devi fare adesso. Avresti già dovuto farlo da tempo. Non aspettare un altro minuto. Per favore. Fallo. Vai."

Glielo dice così, con una voce dolce come il latte. Ecco a cosa serve Eloda. Ad indicarti la strada per sputare fuori il dolore, perché nessuno è stato così a stretto contatto nella tua vita da riuscire a insegnartelo, quando hai vissuto una vita in "isolamento", dove "non esiste il tempo, non esistono le storie. E' dove i momenti vanno a morire."

"Aveva ragione. Era passato troppo tempo. Mi fiondai alla porta, poi giù per le scale. Delle voci mi chiamarono  mentre sfrecciavo attraverso la Reception. Il traffico ruggiva. Alla fine dell'isolato, mi misi a correre. Oh, Dio, aveva così ragione, non c'era un momento da perdere. Non avevo altri guantoni da seppellire, o bici da affondare. Corsi giù per Airy Streer e poi per la Swede e a ogni passo dipanavo i giorni della mia vita; corsi giù  per la Cherry finché non incrociai la Oak e finalmente, finalmente trovai me stessa all'Angolo e mi gettai a terra, sull'asfalto, in quel punto - oh, sapevo bene qual era - faccia a faccia sull'asfalto che era caldo e scuro e finalmente, finalmente piansi ad alta voce: "Mammaaa!" E' l'unica parola che ricordo. Quali furono le altre e se avessero senso o per quanto tempo continuai a pronunciarle, non lo ricordo. Tredici anni stavano straripando, inondando la strada, scorrendo negli scoli."

Mentre Cammie corre all'Angolo incontro alla strada io getto il libro sul letto, interrompo la lettura e inizio a singhiozzare. Fa bene piangere insieme. Ho anche io un dolore che chiama e mi inchioda, e lo sputo fuori come Cammie. E penso alle parole di Fabrizio De André nel suo "Cantico dei Drogati":

E soprattutto chi
e perché mi ha messo al mondo
dove vivo la mia morte
con un anticipo tremendo?

Come potrò dire a mia madre che ho paura?

Finito il diluvio, la narrazione si stempera, ed escono fuori, candide, come nuvole bianche, le sorprese, che l'autore ha lasciato alla fine della storia. Come un cerchio che si chiude, su una famiglia che si ricompone, e fa luce su gesti e comportamenti invisibili da parte di chi, nell'ombra e in silenzio, ha seminato amore. 


"La figlia del guardiano" è uno splendido romanzo di formazione ricco di colpi di scena, dai registri narrativi vibranti, che talvolta colpiscono alla stomaco e ti lasciano lì, piegato, senza fiato, poi ti carezzano e ti adagiano sul letto. Quanto dolore provoca la morte improvvisa di una madre? Quanto amore, in silenzio, può provare un padre, che ti lascia libera di correre e sbagliare?  Quante persone si mettono li come chiocce a covare i tuoi voti interiori? Quanto è importante saper chiedere aiuto, e accettare una mano? Eppure, a ben guardare, questo romanzo non è solo una originale e avvincente storia sull'amore e il dolore, sul senso di perdita difficile da colmare; c'è anche una suggestiva panoramica sul mondo del carcere, sul regime di pena e il profondo rispetto per la dignità delle persone. In quella "Stanza della Quiete" con la cupola, le panchine e la cascata d'acqua, dove potersi sedere a pensare e riflettere, in uno spazio armonico che sussurra al bello; nei momenti di ilarità tra la piccola Cammie e le detenute, si riflettono, mirabili e luminosi, scorci di umanità, come le nubi e i cieli tersi quando si specchiano nelle pozzanghere, dopo un violento temporale.

"Lungo la strada cominciai a sentirmi così leggera che mi sembrava di potermi sollevare in volo con i fiocchi. Capii in quel momento che cosa stessi cercando e come mai non lo trovassi. Si trattava, ovviamente, della Tristezza. La Tristezza e la Rabbia mi avevano rinchiusa tutta la vita dietro mura che nessuno poteva scalfire e al di sopra delle quali nessuna palla di corda poteva volare. L'unica casa, l'unica vita che conoscevo. Ora capivo che quando Eloda mi ha mandata all'Angolo, mi aveva liberato della mia stessa prigione." 

"La figlia del guardiano" - Jerry Spinelli - Mondadori

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