lunedì 27 novembre 2017

L'estate delle cicale


L'erba era più verde,
la luce più brillante,
 il gusto più dolce,
le notti meravigliose,
circondati di amici,
la nebbia lucente all'alba,
l'acqua corrente, 
il fiume senza fine,
per sempre.

Pink Floyd - High Hopes

Sono gli ultimi versi dell'ultimo brano dell'ultimo disco edito dalla band inglese, nel lontano 1994. Una canzone che fa la retrospettiva di un percorso, umano e artistico, fatto di orizzonti e sogni, cadute e incomprensioni. Un brano che, tanto nella musica quanto nel testo e ancor  più nel video, coniuga la nostalgia con la meraviglia. Nostalgia e meraviglia disegnano un cerchio che si chiude in un ideale abbraccio tra il mondo adulto e quello bambino.


"L'estate delle cicale" di Janna Carioli, illustrato da Sonia Maria Luce Possentini, edito da Bacchilega Junior, è un libro pieno di scoperte e di sospensione, di meraviglie e malinconie, di giochi che si alternano, amicizie che si interrompono e altre che nuove sbocciano. E' un albo dove lo sguardo bambino si incontra e alterna con quello adulto.


La casa sull'albero è un simbolo che va oltre quel luogo dove i bambini reiterano i loro spensierati giochi; incarna idealmente il magico nido dell'infanzia, spesso rimpianta; è un luogo in cui ci si estrania, al riparo dalle turbolenze della vita; un luogo in cui il mondo adulto vorrebbe tornare a rifugiarsi, di tanto in tanto. Un luogo "per sempre". Due parole che tanto piacciono ai piccoli, tanto quanto spaventano i grandi.


"L'estate delle cicale" è un libro speciale, nel suo alternarsi di sguardi intensi e fugaci, sconfinati e sospesi, bambini e adulti. Dove le emozioni, annotate con piglio poetico, incontrano  tavole cariche di sospensione che anelano spazi sconfinati. Con una rara costante: quella bellezza originaria che nasce dalla meraviglia, dall'incanto della scoperta, preziosa anche quando si vela di malinconia o resta intrisa di nostalgia. Perché nella vita tanto si perde, ma qualcosa ritorna. Sempre.


E a me torna in mente il "Federico" di Lionni, il piccolo topo che, all'approssimarsi dell'inverno, fa scorta di voci e colori, sguardi e suoni, raggi di sole, paesaggi esterni che diventano interiori: perché nell'anima alberga l'essenza che nutre ciascuno di noi.


Di bellezza, non ci si sazia mai. Da questa consapevolezza, nasce il nostro "per sempre"

"L'estate delle cicale" - Janna Carioli, Sonia Maria Luce Possentini - Bacchilega Junior

lunedì 20 novembre 2017

Peppino Impastato, una voce libera


"In Sicilia il cielo è un po' più azzurro che negli altri posti. I profumi sono più intensi. Il cibo è un po' più buono. Le persone invece sono come da tutte le altre parti: a volte sono brave, a volte no. A volte stanno zitte, oppure gridano. Ma capita ogni tanto che tra tutte quelle voci se ne alzi una un po' speciale. Una Voce capace di farsi sentire nella confusione e di spezzare il muro compatto del silenzio. Ecco, Peppino era proprio così. Aveva una Voce che non potevi fare a meno di ascoltare. E che, dopo, ti risuonava nella testa per giorni. "

Chiunque abbia creato la Sicilia, sia esso il Padreterno o Madre Natura, ci si è messo di impegno. Ma qui come altrove, è spesso bastato l'intervento dell'uomo a vanificare le cose. Ecco allora che si sono costruite autostrade piene di curve dove potevano andare dritte, o si sono costruiti aeroporti su "strisce sospese tra acqua e roccia" costantemente battute dal vento, dove è assai pericoloso far atterrare gli aerei, tutto questo per una mera questione di terreni e malaffari. 

Davide Morosinotto sceglie di raccontare la storia di Peppino Impastato focalizzandosi sui suoi ultimi giorni di vita. Usa il punto di vista di un ragazzo, Totò, di 12 anni; un ragazzo che, fino ad allora, la parola "Mafia" non l'aveva mai sentita pronunciare, ignorandone, pertanto, il significato;  poi un giorno, accade qualcosa. E' il matrimonio di sua cugina Luisa; nel bel mezzo del ricevimento piombano alcuni signori ben vestiti, con gli occhiali scuri, che si avvicinano al padre dello sposo, e lasciano in regalo una cravatta con un avvertimento, pronunciando parole sinistre: "ma non stringa troppo Don Nino ... ". L'atmosfera cambia di colpo, da festosa diventa cupa, Don Nino si dispera, fino a quando il padre di Totò non si avvicina, dicendogli di non era il caso di preoccuparsi, che con Don Tano ci avrebbe parlato lui. Totò non comprende cosa sia accaduto, però intuisce che quella cosa lo riguarda, se suo padre è intervenuto in quel modo. Poco dopo arriva un altro segnale, alla radio, mentre si sta intrattenendo con i suoi cugini Michele e Maria, e con i camerieri: dalla radio sente una voce, che irride Don Tano Badalamenti, "la persona più importante di Cinisi, e quando mio padre ne parlava  lo faceva con attenzione, come se il suo nome fosse accompagnato da un segno della croce". Insomma, uno che meno si nomina, meglio e più a lungo si vive. Ma chi è quella voce che dice quelle cose? La curiosità di Totò aumenta, ed esplode casualmente il giorno che accompagna clandestinamente la cugina Maria in uno scantinato eletto a sede del centro "Musica e Cultura", fondato sempre da Peppino Impastato, la misteriosa voce. Totò vede ragazzi suonare musica sconosciuta, ascolta Rino Gaetano con la "voce che gratta", i "Pink Floyd", i più "squinternati di tutti", Bob Dylan che canta che il vento sta per cambiare: "La risposta amico, puoi sentirla nel vento". Si respira davvero vento di rinnovamento in quella piccola stanza chiusa e affollata, sembra un controsenso, ma li si respira nuova musica, una nuova idea di cultura, discorsi che agli occhi di Totò aprono nuovi mondi. E si parla, senza paura di mafia, di quel che c'è da fare per cambiare. E' un attacco a tutto campo quello che Peppino Impastato lancia alla mafia locale, arrivando a candidarsi per Democrazia Proletaria alle prossime, imminenti, elezioni comunali. Già, la mafia, ma Totò non ha ancora capito cosa sia. Allora Maria con la vespa lo accompagna in un luogo da cui si domina l'autostrada, tutte curve: "Ogni curva adesso mi sembrava un sorriso storto, beffardo. Una presa in giro che aveva salvato qualcuno e aveva condannato qualcun altro." Un giorno Totò accompagna il padre all'aeroporto di Punta Raisi a prendere un cugino di ritorno dall'America. E vede con i propri occhi la difficoltà degli aerei ad atterrare quei giorni in cui soffia forte il vento, con il rischio di schiantarsi contro le montagne oppure finire in mare. E capisce che quello non è il luogo adatto per costruire un aeroporto. Al padre pone una domanda innocente: "Papà, ma perché lo hanno costruito qui?".  "E cosa vuoi che ne sappia, non sono mica un ingegnere", risponde seccato il padre. E a lui viene spontaneo chiedergli: "E' stata la mafia?". E si becca un ceffone. Sono solo sciocchezze che gli mettono in testa i cugini, tuona il padre.  Ora Totò capisce, davvero. Capisce di aver toccato un nervo scoperto. La mafia esiste, davvero, e qualcuno desidera che non se ne parli. Però manca ancora un tassello. Come fa Peppino Impastato a dire quelle cose su Don Tano, cosa ne sa lui? Decide di togliersi la curiosità un venerdi quando, invece di andare al catechismo, si precipita con la propria bicicletta a Terrasini, dove c'è la sede di Radio Aut, da cui Impastato conduce la sua trasmissione "Onda Pazza". E pone le sue domande direttamente a Peppino. E scopre che lui la mafia ce l'ha avuta in casa, che suo padre era un mafioso che lui ha rinnegato e combattuto, a costo di non parlargli più. Scopre che il padre fuggì in America, e quando fece ritorno in paese fu assassinato. Totò se ne va via con quelle parole che gli fischiano nell'orecchio: "E li scoprii che la mafia non era l'unico modo di vivere. Non era obbligatoria, si poteva stare senza, anzi di più: si poteva combattere".


Totò sceglie da che parte stare, lo fa maldestramente, combattendo con le proprie paure e una sensazione di inadeguatezza, ma fa la sua scelta. Così un giorno, quando vede quei strani signori in casa sua a conversare con suo padre, e li ascolta parlar male di Peppino Impastato, accende la radio a tutto volume, e lascia parlare la "Voce", a controbattere. Il padre si precipita di corsa, lo afferra e lo lancia per aria, ma lui la sua azione l'ha compiuta. L'ultima goccia che fa traboccare il vaso avviene ad un pranzo allargato di famiglia, si parla di politica, si denigra Impastato e Totò si alza in piedi e lo difende a voce, facendo nuovamente infuriare il padre. Che lo chiude in casa, lo accompagna a scuola e lo va a riprendere. Lo sorveglia, lo tratta come un recluso, alla stregua di un delinquente. Totò sceglie di fuggire, non sa nemmeno lui dove trova la forza e il coraggio di prendere certe iniziative e ribellarsi alla volontà del padre, che pure teme. Forse è la coscienza che si desta, forse è la forza della disperazione, forse è soltanto sopravvivenza, il bisogno di tornare a respirare. E si arriva all'ultima fatidica notte.

Morosinotto imbastisce intorno alla figura di Peppino Impastato una delle tante possibili storie, ma la forza del suo libro non sta negli episodi che inventa, ma nel vortice che alimenta. E' uno stato di necessità insito nella forza della sua scrittura, asciutta, che si incava e fa breccia negli spiragli che offre la narrazione. Soffia insistente come lo scirocco  che ti si appiccica, e non si dimentica. E' una voce ostinata la sua, che risuona. E ti scuote, nel fondo dell'anima.

Io, che ben conosco la storia di Peppino Impastato, per lunghi tratti ho avuto l'impressione di leggere un'altra storia, simile ma parallela, alla sua. Una storia che poteva approdare ad un finale diverso, da quello ben noto. Perché ho trovato così tanta energia sprigionata in queste pagine che mi pareva assurdo che il protagonista di quella "voce" potesse finire i suoi giorni in quel modo triste, riverso su un binario, esamine. Ci sono rimasto male, davvero. Io ci avevo creduto. Così ho scoperto la forza di questo libro. E il prodigio compiuto da Davide Morosinotto, nel creare un quadro autentico e a suo modo unico.

"Peppino Impastato, una voce libera" - Davide Morosinotto - Einaudi Ragazzi 

giovedì 16 novembre 2017

La zona rossa


Giro girotondo
casca il mondo
casca la terra
tutti giù per terra”.

Scriii. Rumble Rumble. Trattrattrat. Rum Rum. Tre Tre Tre Rat Rat Rat, Tlak Tlak. Crash.

(Sei tu?) (Si?). (Ora passa). (Ora passa).

Terremoto significa che “ci terremo il moto”, dentro, per lungo tempo. Perché a distruggere basta un attimo. A costruire, le case, un lavoro, un’identità, a volte ci vuole una vita intera.


Soprattutto in quei luoghi, “dove le pecore non vanno al mare”. Dove famiglia, casa e lavoro sono una cosa sola. “Ho sempre vissuto in montagna, che vado a fare al mare? Porto le pecore al mare”?

Ma non è solo per gli animali, che danno da mangiare e ti fanno guadagnare da vivere. Il brutto del terremoto non sta solo nelle case che crollano e il lavoro che perdi, ma anche nel limbo in cui cadi dopo, che spesso produce “sradicamento”. Si possono perdere le foglie, si possono potare i rami, ma che succede se ti strappano le radici da terra?


Dove si prova a stare in piedi”. Anche se non è facile. Perché devi abituarti a convivere. Perché non sai più dove andare a giocare, che nel campo di calcio ci hanno messo le tende, là c’è la zona rossa e non ci puoi andare. Ma io devo cercare Artù, era il mio cane, stava in garage.

Non me ne importa un bel niente, io ci vado! Devo cogliere quello che c’è da cogliere, e strappare quello che c’è da strappare

Un orto è una benedizione in mezzo alla guerra” E “una piccola scintilla può accendere un grande fuoco”.

Ogni tanto ti prende uno scatto di rabbia, e tiri un sasso alla finestra di una casa crollata. Tanto verranno altre scosse a finire il lavoro, a fare Tlak Tlak Rumble RatRatRat.


Allora capisci che “siamo tutti sul dorso della tartaruga”. Nel suo guscio lei si sente sicura. E voi bambini, dove vi sentite sicuri? In tenda, in palestra, forse in roulotte.

“Dove d’un tratto fa molto più freddo”. E’ bella la neve quando,  dopo aver fatto un pupazzo e tirato le palle ti rifugi nel caldo guscio della tua casa. Ma è più difficile in una tenda o in un container, il freddo ti entra nelle ossa. E’ più difficile lavorare, portare assistenza, sgombrare le macerie.


Dobbiamo riaprire la scuola. Perché a scuola si “copia una poesia e si aguzza la vista”. Ascolta.

Hai colto un papavero
e un fiore di carota selvatica.

Hai detto che non
Dureranno però tu li
Hai colti e li hai messi in
Un piccolo vaso.

Lo so. Me l’hai detto.
Che non dureranno

Ma io continuo a guardarli.

Come qualcosa che dura”.

“Dove si fa quel che c’è da fare”. Scavare nelle proprie macerie interiori per estrarre i ricordi sepolti che ci ostiniamo a mantenere vivi. Per salvare il salvabile.



Una vaso rotto non si ripara, non tornerà più come prima. Certe ferite non si rimarginano. Ma anche le ferite servono a qualcosa. A ricordarci che ce l’abbiamo fatta, ne abbiamo superate tante e supereremo anche questa. Se noi proviamo a riparare il vaso, e le crepe e i tagli le dipingiamo color oro, verranno dei disegni bellissimi, tutti diversi, a loro modo unici. Proviamo.

La “Zona Rossa” è una graphic novel scritta da Silvia Vecchini e illustrata da Sualzo, che mette insieme il punto di vista miracolato degli adulti con quello miracoloso dei bambini. Tre ragazzi, Matteo, Giulia e Federico si muovono all’interno in un paese terremotato, tra le cose che non ci sono più, e quelle che ci sono ancora. Tra le cose che cambiano, quelle importanti che sopravvivono e si trasformano, nonostante tutto. L’amicizia pianta nuovi semi e apre nuove strade, là dove restano in piedi solo le cose che nella vita contano davvero. Come i rapporti umani e sociali, che nella quotidianità vengono sempre più trascurati.


La “zona rossa” coniuga una triste realtà (il cuore di un paese lesionato e pericolante dove di norma è interdetto l'accesso) con una potente metafora: la “zona rossa” è l’essenza delle cose, il cuore dei rapporti danneggiati e da ricostruire, dei punti di vista pieni di incanto e spesso smarriti nella fretta; è quello che in fondo conta davvero, nella vita di ognuno.

Sebbene la storia sia di pura fantasia, tra le macerie respirano luoghi autentici, che ambiscono a tornare a vivere come un tempo, prima del terremoto; perché Sualzo nei suoi disegni ha riprodotto e seminato diversi scorci di alcuni paesi danneggiati nel sisma del 2016. Ci sono angoli di Norcia, Camerino, Visso, e altri luoghi ancora.


Silvia e Antonio dedicano questo libro:

A chi ha perso qualcuno
A chi ha perso la propria casa
A chi ha sentito muoversi la grande tartaruga
A chi ha conosciuto la paura
A chi per mille ragioni è ancora ferito
A chi nonostante tutto guarda un papavero
Come qualcosa che dura
A chi ogni giorno fa combaciare i propri frammenti
Senza dimenticarsi dell’oro.

Al libro è abbinato un progetto. Per ogni copia venduta de "La zona Rossa" l'editore il Castoro devolverà un euro per creare e sostenere un laboratorio teatrale per bambini e ragazzi a Montefortino, piccolo comune marchigiano duramente colpito dal sisma, che avrà come finalità quella di realizzare uno spettacolo ispirato al libro. Un laboratorio di recitazione per ricostruire a partire dalle emozioni, dai sogni e dalle speranze dei più piccoli. Il progetto è stato ideato dall'editore insieme ai due autori, in collaborazione con la Onlus Altotevere senza frontiere di Città di Castello (PG).

P.S.- La poesia citata è “Un papavero” di Walter Cremonte, contenuta in Con amore e squallore, "Associazione culturale la Luna", 2016

 "La zona rossa" - Silvia Vecchini, Antonio "Sualzo" Vincenti - Il Castoro

lunedì 13 novembre 2017

Pusher


"Cominciai a leggere, si, ma non riuscii, perché mi vennero le lacrime. Le lacrime facevano ballare sul foglio le parole e mica le vedevo, le vedevo tutte mosse, sfocate come dietro a un fumo. Mi asciugai gli occhi con la manica della maglietta, e allora i miei compagni fecero un altro applauso forte. Tirai su col naso. Feci un respiro profondo. E mica era facile. Presi a leggere, finalmente, a leggere il mio sogno, il sogno che volevo realizzare e che a casa non potevo dire, e a leggerlo il mio sogno era il più strano e il più pazzo e bello di tutti i sogni che si potessero sognare. Parlava di me che volevo fare il giornalista, che volevo scrivere sul giornale com'era bella Napoli e i napoletani, e che bei dolci si potevano mangiare a Napoli, e che belle canzoni si cantavano, e che squadra forte di calcio avevamo, e come i ragazzini avevano diritto di giocare e divertirsi invece di lavorare, di rubare e di spacciare. Leggevo ormai senza fermarmi, ché il respiro quasi mi mancava, e mentre leggevo, sembrava che, visto che lo avevo scritto bene, con le parole tutte giuste, prima o poi davvero forse poteva capitare. Ma, leggendo leggendo, pensavo alla testardaggine e alla forza e alla volontà che ci volevano per far succedere una cosa così, così difficile, e io mica ce l'avevo, quella forza. E avevo contro mio padre, mia madre e pure gli amici. Ma poi, alla fine, in mezzo all'applauso che mi arrivava in faccia e nelle orecchie, guardai il prof che sorrideva e faceva sì sì con la testa e pensai alle parole che diceva sempre; che, se hai una passione forte, la disciplina poi ti viene".

E' un capitolo, questo, che mi piace riportare per intero, perché affiora così, nel bel mezzo del romanzo,  come una "Spaccanapoli", a separare due ipotetiche vite che vi si affacciano.  Anche se la visuale ariosa e panoramica che restituisce sembra più quella di un affaccio sul mare a Posillipo. 

Non è facile parlare dell'ennesimo libro di Antonio Ferrara scritto in modo superbo ed empatico; eppure questo racconto l'ho sentito, e vissuto, in modo diverso, non appena ho iniziato a leggerlo. Solitamente la scrittura di Antonio mi mette le ali, è una tale sequela di carezze e risate, bravate e lacrime, abbracci e ceffoni, che quando abbasso lo sguardo per iniziare un suo libro, difficilmente lo alzo prima di averlo finito. 

Ma Tonino è un ragazzo di 13 anni con la pistola in tasca, il pomeriggio ha la fila sul portone di casa, la notte le dosi le spaccia in piazza. Con Tonino sei fortunato se l'amico  sveglio ti para il culo quando lo stronzo di turno ti mette le mani al collo, per strapparti la dose senza pagare. Tonino, mandato a sparare dal padre per appianare uno sgarro. Difficile immaginare un orizzonte con Tonino. Difficile voler scappare con lui da qualche parte.

Però non è solo questo. "Pusher" scorre meno lineare di altre storie, si propaga lento e inaspettato a macchia d'olio, ogni capitolo, nella sua sintesi, tra densità e ritmo, contiene la luce e il buio; crea, più che altrove, uno spaccato autonomo. Un sipario. C'è, più che altrove, il teatro di Antonio, la sua commedia, un proiettarsi di scorci, di tanti piccoli presepi. E allora questo libro me lo sono sorseggiato, come tante piccole "tazzulelle 'e cafe' ". Perché sembra non conceda scampo, e invece ti lascia spazio per pensare. A quello che sei, a cosa diventerai.

Attraverso i racconti del nonno malato Tonino comprende che c'è un tempo per vivere e un tempo per morire; quando sei potente la gente ti rispetta e ti teme, ti serve e ti riverisce; ma quando sei vecchio e stai male, quando non conti più niente, la gente si dimentica di te, e resti solo come un cane. E allora i soldi e il potere non servono a niente. Cosa gli racconta il nonno a Tonino? di quando sparava? di quando spacciava? di quando si spartiva Napoli? No, gli racconta la storia di quando era ragazzo e per far colpo sulla nonna le regalò una gallina (che nel dopoguerra era una dote preziosa), e quella disgraziata le scacacciò sulla camicia bianca. Una storia di amore e gioventù, che ogni volta arricchisce di un particolare, che affiora dalle nebbie della memoria. Perché quando invecchi ricordi l'età più bella, che è la gioventù e le sue follie. E allora a 13 anni devi giocare, devi studiare, non spacciare, Tonino. La figura del nonno apre uno squarcio ironico - iconico agli occhi del ragazzo. Sono pagine di luce e amore, risate e commozione. 

Poi c'è il professore, che per prima cosa ti insegna a ridere. "Tu ridi troppo poco Toni'. Ricordati che sei ancora nu' guaglione, e devi ridere di più!'". "Si può anche imparare mentre ridi, no?" - Bisogna essere felici di imparare". Con il sorriso puoi smontare i problemi a poco a poco, mettere in fila i pensieri, e darti una disciplina. Il professore che aiuta a guardarti dentro, a separare le luci dalle ombre. 

"Avevo sempre avuto una bella calligrafia, mi piaceva scrivere chiaro. Mi piaceva che le parole si capissero bene e dicessero bene le cose che uno pensava, pure quelle brutte. Quando uno pensa può anche pensare male, disordinato e senza capo né coda, pensavo, ma quando scrive le cose le deve mettere a posto, le deve dire bene". 
   

Non puoi sapere in anticipo quale direzione prenderà la tua vita, però è importante saper riconoscere da quali mani farti impastare. 

"Ogni volta che tiravo fuori il pane dallo scuro del forno mi veniva in mente che ero io, quel pane, ero io che uscivo dallo scuro e mi presentavo fresco fresco al mondo. Ma era Carmine che mi aveva impastato e messo al forno a crescere e a cuocere fino al punto giusto, lo sapevo, era lui che mi aveva dato un'altra forma."

Pane e basilico.

"Mangiavo di gusto e pensavo che eravamo così, Carmine e io: lui era il caldo del pane e io il basilico, lui era il caldo che faceva uscire tutto il profumo che avevo dentro io e non si sentiva".

Già, ma chi è Carmine, e chi è Tiziana? Chi sono queste persone che nel buio diffondono luce? Dacci oggi il nostro "pane" "quotidiano". Pane e quotidiano. Che di notte non lavorano solo i pusher, lavorano anche i panettieri, e i giornalisti. 

"Pusher" è un po' così. Schizza via come una pallottola di rimbalzo e non sai bene quale parte di te andrà a colpire. Ma ti ricorda anche che dentro la sfogliatella c'è la crema, e se sei un ragazzo di 13 anni, ed hai una vita davanti, te la devi saper giocare. E qualunque cosa accada, fattela una risata.

Pochi autori sanno spacciare gioie e dolori, sorrisi e lacrime, abbracci e carezze, come Antonio Ferrara. Ogni suo libro è un viaggio, uno spaccato, della complessità di questo mondo contemporaneo, interconnesso eppure così slegato, costituito da una somma di solitudini e tante sottrazioni di responsabilità.

Antonio sa che alle volte serve qualcuno che ti dia la spinta, o ti indichi la strada. E lui tra le righe ti incoraggia e ti spinge, che le storie servono anche un poco a questo, a seminare le difficoltà  e ritrovare quella fiducia in sé stessi. Quella fiducia di cui tutti, adulti e ragazzi, abbiamo in fondo un grande bisogno.

"Pusher" - Antonio Ferrara - Einaudi Ragazzi

mercoledì 8 novembre 2017

Una scintilla di noia


"È stato un gran casino. Un gran brutto casino.

Ma è partito come queste cose cominciano sempre: piano piano, che quasi non te ne accorgi e ti ci ritrovi dentro no al collo e anche più su. Ma è quando sei all’ultimo respiro – prima che l’orrore di fuori ti entri dentro e ti riempia – che puoi ancora cambiare le cose. È questione di un soffio, uno solo, e devi usarlo bene oppure lasciarti sopraffare e annegare dentro a quello che hai combinato."

"Scintilla" e "Noia" sono due termini agli antipodi, come le rive di un fiume che procedono parallele, guardandosi equidistanti, senza mai sfiorarsi. Ma che succede se, ad un certo punto del corso, affiora il "Ponte del Diavolo" a collegare le due sponde, e qualcuno decide di attraversarlo, per vedere che accade dall'altra parte?  Sembra una metafora, ma è quello che può accadere a chiunque nella propria realtà. Dalla noia alla scintilla il passo può essere breve, e scatenare addirittura un incendio quando, per un misto di sufficienza e trascuratezza, ti porta a compiere delle azioni con leggerezza e in fretta, senza riflettere, senza adottare quelle normali misure che la cautela imporrebbe. Come ad esempio, controllare dove si lancia un petardo, se c'è del materiale infiammabile, a terra o intorno. Controllare, prima di lanciare un oggetto (se proprio non possiamo farne a meno) se si rischia di colpire qualcuno.

"Una scintilla di noia" di Annalisa Strada narra la vicenda di un terzetto di amici (Brando, Luna e Fausto), i quali un giorno, assaliti dalla noia, decidono di fare qualcosa di diverso. O meglio, uno decide (Brando, colui che sembra avere la soluzione già pronta in tasca), gli altri due lo seguono a ruota, senza particolari opposizioni, come spesso accade nelle dinamiche dei rapporti di amicizia. Ma le dinamiche, si sa, restano tali fino a quando non accade qualcosa a scuoterle nelle fondamenta. Quello che accade ai nostri protagonisti. Dei petardi rudimentali, lanciati incautamente sotto un ponte, provocano un incendio. La situazione, che sembra prendere una brutta piega, è aggravata dall'affacciarsi delle persone dei palazzi circostanti, destati dai tonfi delle esplosioni. E i nostri eroi se la danno a gambe. Parrebbe un'innocua ragazzata, ma l'indomani esce una di quelle notizie da far gelare il sangue alle persone normali: sotto il ponte dormiva un senzatetto, avvolto tra i cartoni che hanno preso fuoco, il quale è rimasto ustionato; lo hanno ricoverato in ospedale, lo tengono in coma farmacologico, è in gravi condizioni. 

La vicenda è narrata da Luna, che a ben guardare, nel dipanarsi della matassa narrativa, è anche l'unica dei tre che si è posta delle domande, ed ha provato, per necessità o per sopravvivenza, anche a darsi delle risposte. Sin dall'inizio, perché lei suggerisce di andare a controllare, a scoppio avvenuto, che non sia successo niente a nessuno, ma i suoi appelli cadono nel vuoto. A dire il vero ci prova anche Fausto, in origine, a suggerire di chiamare le forze dell'ordine (una chiamata anonima, nascondendo il numero del cellulare, sia mai che ci si debba prendere troppe responsabilità) ma Brando pare irremovibile. Luna ripercorre i suoi passi a distanza di mesi: 

"Ho ripensato a quei giorni mille e mille volte, ma non subito dopo. Ho dovuto lasciare che trascorressero parecchi mesi prima di consentire alla mia mente di ripercorrere quei momenti. Mi faceva paura aprire quell'angolo della mia memoria, andare a vedere che cosa sarei stata in grado di ripescare e scoprire con quale faccia quell'incubo mi si sarebbe riproposto. Ho trovato il coraggio di scoperchiare i ricordi quando ho iniziato a temere che si scolorissero e si tradissero da soli, traducendosi in qualcosa di più morbido e accettabile."


La situazione emotiva della ragazza viene ben restituita dalla tessitura narrativa dell'autrice, che indirizza la ragazza verso un cunicolo interiore ricavato tra il "senso di responsabilità" e il "senso di colpa", senza via di uscita, con le pareti che a poco a poco si stringono, creando un senso di crescente claustrofobia. La situazione intorno precipita, e inizia a mancare la terra sotto i piedi. Non ti restano più nemmeno gli amici, che gli altri due non vogliono mica  saperne di "cantare", e prendersi le proprie responsabilità, soprattutto quando iniziano a circolare i nomi di alcuni probabili "capri espiatori". 

Ma Luna non ce la fa proprio a chiudere gli occhi e far finta di nulla. A farglieli aprire del tutto ci penserà Zak (Zaccaria), il ragazzo di cui è innamorata, l'unico con cui possa ancora confidarsi. Prima di aprirsi con i propri genitori. Un'autentica boccata di ossigeno in un ambiente che odora di stantio.

"Bisogna avere molta paura per accorgersi di avere coraggio".

Un romanzo che scava nelle pieghe di una quotidianità solo apparentemente "spenta", che in realtà attende solo un pretesto per ardere. Un racconto che mira a guadare il lato oscuro della propria coscienza interiore. Un libro che si illumina di risvolti inaspettati, e non lesina colpi di scena finali.

"Una scintilla di noia" - Annalisa Strada - Edizioni San Paolo

giovedì 2 novembre 2017

La figlia del Dottor Baudoin



“Lunedi era una terra promessa. Era dopo, dopo la nausea, dopo il dolore, dopo l’angoscia e il dispiacere. Veniva da domandarsi se il lunedi esistesse.”

Sono le ultime tre righe, a pagina 153, quando i miei occhi si velano di lacrime. Inaspettatamente. Perché per tre quarti questo romanzo, dal tono leggero, dissacrante e ironico, per quanto fitto e denso, mi aveva divertito. Ma per Violaine il tempo è ormai scaduto. Non è una scelta facile, la sua, soprattutto in rapporto alla sua giovane età. E’ una decisione che avrà, in ogni caso, ripercussioni sulla sua vita futura. Ci sono dei momenti in cui la vita ti porta a un bivio, e non hai tempo e modo  di stabilire in anticipo la bontà della direzione da prendere, puoi soltanto scegliere dove svoltare. Violaine decide di interrompere la sua gravidanza. Non sa se è la scelta giusta, ma è la sua. Forse il segreto di certi snodi esistenziali sta nei versi di Boris Cyrulnik che la Murail mette ad incipit del suo romanzo:
 
La felicità dà solo pagine bianche


Ma trionfare su una prova

Varrà bene un capitolo




Violaine affronta la prova con sé stessa, e scrive un capitolo cruciale nel suo passaggio da ragazza a donna. Forse il destino di Violaine è nel nome che richiama un colore, il Viola, enigmatico, fondo, di difficile interpretazione. Ma che suona simile a qualcosa che viene” violato”, suo malgrado. 

“La figlia del Dottor Baudoin” di Marie – Aude Murail inaugura “Le Spore”, la nuova collanza di Camelozampa dedicata alla narrativa Young Adult. E’ un romanzo denso di argomenti, dall’interruzione volontaria di gravidanza alla deontologia medica, dalla famiglia all’amicizia, dalla fiducia al tradimento all’incomprensione, dai tumori alle prevenzioni, fino a toccare una delle piaghe striscianti della nostra epoca: la solitudine che nasce dalla mancanza di dialogo, e di ascolto. Tanti personaggi si alternano sul palcoscenico, ognuno con le proprie virtù e debolezze, luci e ombre; tutto si muove in modo concatenato e senza battute d’arresto. Come valvole in un motore da corsa che si alzano e abbassano continuamente, in modo sincronico, senza dispersione. L’autrice francese, in questo, si conferma meccanico formidabile, la narrazione non picchia mai in testa, e non perde un colpo. Ma è un motore a geometria variabile, dove ogni personaggio, anche il più marginale, acquista il suo momento di centralità, anche se chiamato in causa una volta sola. Si pensi alla D.ssa Nina Broyard, così cinica nella sua lucidità, quando sferza Violaine per essersi presentata con l’amica a pianificare l’interruzione di gravidanza, all’insaputa dei suoi genitori; sebbene in alcuni passaggi appaia acida, ai limiti dell’insensibile, si fa portatrice, a sua volta, di una logica incontrovertibile.

Pensi di parlare di tutto questo con tua madre?
Non so”, singhiozzò Violaine.
Sarebbe bene che veniste qui insieme. Questa faccenda non riguarda Adelaide, capisci? Non è lei che può aiutarti in questo momento della tua vita.


Sebbene questo romanzo metta un dramma tutto femminile (l’interruzione volontaria di gravidanza) al centro della narrazione, anche le figure maschili contribuiscono in misura rilevante alla sua ricchezza, oserei dire alla piena riuscita. Si pensi al Dott. Jean Baudoin. Relegarlo a semplice uomo in carriera in crisi di mezza età, scarsamente recettivo alle istanze mosse dai suoi familiari, non rende giustizia al grande lavoro di screziate sfumature fatto dall’autrice intorno a questa figura, che ha un peso centrale nell’economia del racconto. A partire dalle sue battute fulminanti, dissacranti, sempre precise e puntuali, spesso dotate di grande acume, soprattutto quando si tratta di mettere alla berlina alcuni vizi e nevrosi delle contemporanee relazionalità familiari. Lo si intuisce fin dall'inizio, dal primo capitolo, di ritorno a casa dopo una dura giornata di lavoro. Cerise, la piccola di 8 anni, alleva maiali in una Farmville su internet; Jean – Paul che gli  chiede la carta di credito per comprare un vestito costoso; Violaine, sul divano, stretta sul cuscino, fa zapping ad alto volume rispondendo a monosillabi contraddittori: “Si ma no”. Ce n’è a sufficienza per mandare fuori di testa la più posata delle persone. Baudoin ha le sue buone responsabilità, avendo perso slancio e passione per la sua professione; visita con l’orologio in mano, prescrive alcune medicine senza prima visitare, oppure analisi inutili al laboratorio della moglie, per arrotondare;  eppure è a un uomo che, al netto della sua scientificità, vive di presagi oscuri, che a poco a poco si assiepano come nubi minacciose, minando le sue certezze. 

Ma restò con lo sguardo vuoto prima di posarlo su una foto incorniciata. Una foto che aveva scattato lui stesso a Deauville. Rappresentava Stéphanie tutta carina in un vestitino corto, tra Violaine e Pilou. Un’ondata di nostalgia sommerse il dottor Baudoin. Quel giorno, il giorno della foto, erano felici. Cos’era successo dopo?

e ancora:

Era nervoso come gli animali all’approssimarsi di un cataclisma. Gli sembrava che tutto quello che aveva rappresentato la sua vita fino a quel momento, tutto ciò che contava per lui, sarebbe andato in frantumi. Ma non sapeva da dove sarebbe arrivato il fulmine, né chi avrebbe colpito”.

Pensieri che ce lo restituiscono nella sua umana fragilità. Prima di capitolare, divorato dalle ansie, riesce a vedere sua figlia Violaine con occhi nuovi, pieni di ammirazione: perché lei è ormai una "donna", che si è fatta da sola.
  
Menzione di merito al Dottor Vianney Chasseloup. Uno che sembra muoversi a ruota, sulla scorta degli altri protagonisti, destinato a vivere di luce riflessa, emerge poco a poco, alla distanza; in questo infernale Acheronte di convulsa schizofrenia, si fa traghettatore di umanità. Onorando quel giuramento di Ippocrate appeso allo studio, che legge e ripete ogni mattina, prima di iniziare le visite. Lui che ascolta le magagne familiari dei pazienti sfiduciati e stanchi, inascoltate da Baudoin; loro, che hanno bisogno di conforto e comprensione, più che di medicine. Finendo, suo malgrado per sottrarre i pazienti all’illustre collega. Lui che fa la spola tra lo studio di medicina generale e il centro di pianificazione familiare. Chasseloup “occhi d’asino” c’è sempre nei momenti che contano. Che si tratti di operare d’urgenza Violaine, colpita da emorragia; o salvare la vita al collega Baudoin, colto da infarto, rianimandolo con un massaggio cardiaco, chiamando tempestivamente i soccorsi per il ricovero in ospedale. Saprà trasformare un  si ma no” in un “no ma si”?

La bravura di Marie-Aude Murail, in fondo, sta in questo; non ci sono vincitori né vinti, comparse e protagonisti assoluti. Ognuno è portatore sano di istanze, che per giungere a compimento, richiedono il contributo decisivo di qualcun altro. Sono vite che si incrociano, cammini paralleli che si intersecano. Esperienze che si incastrano. Un romanzo “corale” a tutti gli effetti, anche nella declinazione delle emozioni. Dal riso al pianto in un batter di ciglio. Talvolta col ghigno beffardo di chi, dalla vita, non si fa mettere spalle al muro, ma sa opporvi, sempre e comunque, un sorriso.  

Degna di nota la traduzione di Sara Saorin; a lei il difficile compito di restituire la musicalità dell’originale. Direi che l'ardua impresa è riuscita alla perfezione.

La figlia del Dottor Baudoin” – Marie-Aude Murail - Camelozampa