venerdì 20 ottobre 2017

Io sono il cielo che nevica azzurro


"Appena un passo dietro di lei, le vedevo le ginocchia, l'incavo tondo, dietro, bianco come un bucaneve, con i due tendini tesi a tenerlo lì sicuro e protetto, quel tondo vuoto e nudo, scoperto e indifeso. L'unica cosa in lei scoperta e indifesa. Quelle ginocchia nude erano della mia mamma, ed erano così belle che mi veniva da piangere. Era lei la mia mamma, era lei la mamma che volevo, mi consolasse o no quando cadevo, mi lasciasse andare a giocare  sul sagrato infinite volte di meno di quanto desiderassi e anche di quanto sarebbe stato giusto. Era lei, con quelle ginocchia lì, che me la restituivano bambina come me, con la voglia di correre via, e di andare a giocare. Potevo fidarmi di lei, era stata bambina, quelle ginocchia ne erano la prova,e poi lei era bella, e forse allora anch'io, chissà."


In una parola: "Potente". Inutile sprecare superlativi friabili per questo libro "essenziale", nella sua scrittura asciutta e fresca, da sembrar scavato e intagliato nella roccia, poi levigata dall'acqua. Tanto è fresco. Sa di montagna, e non perché sia ambientato là; della montagna racconta l'essenza, nella frugalità rude dei gesti, nei confini terrestri e celesti certi, a loro modo angusti, per quanto aperti e ariosi. Perché valli e fiumi non delimitano solo gli sguardi, separano il noto dall'ignoto. Dove finisce la strada e si chiude la valle, il confine mentale trova un appiglio reale. Eppure tra quelle viuzze e piazze, si respira una gran libertà di apprendere e sperimentare. La montagna è una scuola a cielo aperto, dai molteplici suoni e dalle mille lingue, dove anche un semplice sasso, un ruscello o un campo d'erba, hanno mille storie da raccontare. Basta solo fermarsi un attimo, e volerle ascoltare.


Questo è un libro che va aperto con garbo, e lasciato decantare. Va letto piano, senza fretta, lasciando i pensieri a macerare al ritmo infallibile della natura. Perché ci respira dentro un mondo e ci canta un'epoca, messa in disparte con eccessiva fretta. Tutto parte lento, cadenzato, con le "boasce", "quelle grandi torte marroni che le mucche lasciano cadere a terra in una lunga sequenza e intermittente, tenendo alta la coda e guardando il mondo dritto negli occhi, con calma sovrana".  Attraverso questi animali che procedono lenti, seminando sterco lungo le strade e i campi, prendi confidenza con il mondo che ti circonda, e i suoi ritmi. Le mucche portate in altura sui pascoli e poi ricondotte al paese scandivano le stagioni, meglio dei calendari. L'autrice divide i capitoli usando "parole" e "concetti" simbolici in cui avviluppare e dipanare i fili della narrazione.


Ma è dal secondo capitolo, con le "ginocchia" che il racconto si impenna e si apre, e acquista spessore. Per quanto l'autrice privilegi sempre un linguaggio asciutto, scevro di artifici letterari, chiamando le cose con il loro nome. Ma il racconto sembra benedetto dalla luce di montagna, quella luce vivida che restituisce agli oggetti i loro colori, e ai gesti i propri significati. Autentici perché originari. Attraverso le ginocchia si entra a contatto con il mondo e le sue infinite possibilità, esplorandone incanti e insidie. E la narrazione acquista fisicità, sa di cadute e sbucciature, lascia i segni, come l'elastico dei calzini alle gambe. Lì si nasconde l'anima dei bambini, ma anche l'anima del libro stesso. 

"Non sapevo dove fosse l'anima, in quale parte del corpo albergasse, ne ho sentite così tante  che non me lo chiedo nemmeno più. Ma quella dei bambini, almeno negli anni in cui imparano a camminare, a correre e saltare, credo soggiorni nelle ginocchia. E quando dormono, anche lei tira il fiato e si riposa".


Ma nell'incavo delle ginocchia Giusi Quarenghi scava un carteggio esistenziale con la propria madre di un tale nitore che profuma di poesia e suscita commozione. Ci leggi tutto il respiro di un'epoca giunta sulla via del tramonto, di quando i genitori sapevano controllare i propri figli a distanza, con un semplice sguardo, senza mai perderli d'occhio, anche se affaccendati in altro;  evitando di stargli costantemente addosso, con il fiato sul collo. Lasciandoli così  liberi di provare, sperimentare, conoscere, persino sbagliare, a costo di pagarne le conseguenze. Ci sono un paio di pagine indimenticabili, di luce e spessore, parole e pensieri che scavano, come avrebbe fatto Michelangelo su un blocco di marmo. E' qualcosa che resta dentro, scolpito in eterno. E allora le rubi dal libro e le infili in tasca, perché sai che un domani ti serviranno.

"Ma il pensiero che c'è qualcosa di indifeso e di fragile in ogni creatura, e la tenerezza che lo origina e che ne viene, credo proprio di averlo fatto guardando l'incavo delle ginocchia della mia mamma dove il sole si appoggiava appena, senza che lei lo sapesse. E lo tenevo dentro di me, quel luogo della tenerezza, suo eppure a lei sconosciuto, mio di lei a sua insaputa. Lo tenevo accanto alla voce che concludeva sgridate apocalittiche alla bambina disubbidiente e caparbia che ero con la formula:

"E non farti vedere da me che vieni a piangere sulla mia tomba, dopo che sarò morta!"

"Dio ti vede", era scritto sul catechismo mai quanto la mia mamma, pensavo io. Intanto che mi affidavo alla tenerezza per tenere a bada  la paura, alla paura per arginare la tenerezza, nella speranza che le voci tornassero normali, e venisse sera, e la carezza della buonanotte."


Libro "potente" e di "spessore", a dispetto delle sue poche pagine. Due aggettivi semplici e inequivocabili per misurare la bontà di una storia, questa di Giusi Quarenghi, ma che rende giustizia anche alla bontà del  progetto editoriale messo in piedi da Topipittori. Perché "gli anni in tasca" rappresentano una sfida non solo per chi legge, ma anche e soprattutto per chi scrive. Descrivere la propria infanzia, e farne materia narrativa, romanzesca, è quanto di più difficile un autore si trovi a dover affrontare. Una scommessa vinta: nel 2010 "Gli anni in tasca"  hanno vinto il Premio Andersen come miglior collana di narrativa, "per aver proposto con sagace rigore, in un momento editorialmente non facile, un'idea nuova di collana. Per essersi affidata a una pluralità di voci, di esperienze, di eco, di generazioni capaci di rendere al meglio l'avventura faticosa ed esaltante, stupefacente talvolta, della crescita, della scoperta di sé e degli altri".

Questo libro è una "festa". Ma cosa significa, oggi, la parola "festa"? Forse ce lo siamo dimenticati. E allora ascoltate come ce la racconta questa bambina di cinquanta anni fa. La festa è qualcosa che ti solleva da terra.

"Esco da chiesa, non mi fermo a parlare con nessuno, che si accontentino di guardarmi oggi. Sulla strada dalla chiesa a casa incrocio la Santina, la mia vecchia preferita, che mi dice:

"La tua mamma è ancora dalla nonna, vero?"

Non le rispondo neanche. Io oggi sono il cielo che nevica azzurro e ghiaccio. Se solo potessi camminare con i piedi in mano. Ma oggi io solo la regina, faccio quello che voglio e il cielo è con me. E la neve. La neve già mi piaceva, ma da quel giorno siamo complici. Lei può fare come vuole, e anche io. Non me la prendo mai con la neve. Anche quando sembra complicarmi la vita, so che è solo apparenza color ghiaccio, dal cuore celeste. E preferisco patire freddo che caldo. Forse nemmeno lo patisco, da allora".


"Io sono il cielo che nevica azzurro" - Giusi Quarenghi - Topipittori

mercoledì 18 ottobre 2017

Nella pancia della balena


La guardo.
Mentre il treno se ne va e lei diventa piccola.
E' sempre stata piccola.
Una piccola mamma.
Piccola. 

Storie familiari appese al filo della narrazione, ad alta tensione. Di ragazzi che si trovano a dover crescere in fretta, arrangiarsi da soli, per sopperire alle mancanze dei propri genitori. Di pensieri a margine, come i binari abbandonati di periferia, pieni di erbacce. Di grandi occhi sui muri, gialli con le pupille nere, che  ti fissano e ti inchiodano ovunque tu sia, per strada o alla finestra del tuo appartamento. Di code sui muri, in situazioni che sembrano non avere capo.

Amo quelle storie che quando ti parlano non dicono, suonano. E' come attaccare il jack della chitarra all'amplificatore, sistemare la pedaliera, e andare in assolo. Che a ben guardare questo libro è tutto un assolo suonato ad un ritmo vorticoso, senza respiro, dove il piano narrativo scivola via, in dissolvenza, con uno stile ai limiti del surreale; dove il sogno si mischia al reale e non capisci più quello che accade. E ti manda in apnea. Ecco cosa vuol dire finire "nella pancia della balena". E se non sei Pinocchio e non sei fatto di legno, ti turbi e ti scuoti, vai in ansia, fatichi a reggerti in piedi. E fai cose senza senso, come andare a dormire in cantina, abbracciato alla bicicletta.  Dove sei finita, Mamma?



"Il ragazzo dei graffiti è lì, che dipinge. Dapprima non vedo quasi niente, immerge il pennello nel bianco e lo stende sui mattoni, lo immerge e lo stende sui mattoni, regolare, dall'alto in basso, dall'alto in basso. Se ne frega del sole. Se ne frega della gente. Guarda i mattoni, non guarda altro. Poi si allontana un attimo e allora li vedo,i denti, uno a fianco all'altro. Sono spessi e vicini. iniziano ordinati poi si coprono l'uno con l'altro. Con le punte affilate che guardano verso l'occhio giallo. 

Sorridi o piangi?
Chiedo all'animale.

E per un attimo mi sembra che glielo chieda anche lui, mentre guarda il muretto ad un metro di distanza."

Non lasciatevi ingannare dalla quarta di copertina. I pantaloni strappati, le scarpe fuori moda. La buona narrativa è randagia, spunta come i fiori gialli in mezzo all'erbaccia, tra i binari abbandonati. Questa libro è pura vertigine, che risucchia, come un'onda. E quando ti sputa via, non sei più la stessa persona. 

Strascichi di una lettura durata appena mezz'ora.

 "Nella pancia della balena" - Alice Keller - Camelozampa

sabato 7 ottobre 2017

Una foglia


Corsivi corsari. Come quelli di una foglia che, manifestando un anelito umano, si stacca dall'albero per andare a vedere come è fatto il mondo. 


«Pensò semplicemente che era bene prendere il vento come si prende un tram».


«Così, quando arrivò una raffica di vento più forte, lei ci saltò dentro al volo».


Il testo di Silvia Vecchini resta lassù, leggero e sospeso nel vento; sono le illustrazioni di Daniela Iride Murgia a toccare terra, e allagare la scena.


Calando la narrazione plumbea, interiore, eterea, in un variopinto e dinamico safari urbano, con i suoi attori, istanze e umori.


Le illustrazioni della Murgia, sempre così minuziose, curate, preziose, allagano il foglio bianco di quadricromie che si fanno binari e pozzanghere, scaricando a terra la loro linfa vitale. 


E' un incontro magico quello tra l'istanza puramente interiore del viaggio e quella rivelante della scoperta che si manifesta attraverso la fisicità del contatto.


Per un attimo anche il vento si ferma, e osserva incantato.



 "Nemmeno il vento se n'era andato. E lui soffia dove vuole".


Silvia Vecchini conferma la propria maestrìa nel raccontare la poesia delle piccole cose, senza artifici e al riparo da morali. Daniela Iride Murgia diventa ogni giorno più preziosa, con i suoi sguardi che restituiscono il fascino dei gesti antichi e il sapore delle cose buone; il suo tratto è uno dei più caratteristici della scena illustrativa italiana. Edizioni Corsare si mantiene editore rigoroso e coerente, nelle sue scelte narrative e stilistiche, privilegiando la qualità alla quantità delle pubblicazioni. Poche, davvero buone.

Ci vuole coraggio a lasciarsi andare come "una foglia".  Un albo prezioso che ha meritatamente vinto il "Premio Rodari 2017" per la sezione Albi illustrati.

"Una foglia" - Silvia Vecchini, Daniela Iride Murgia - Edizioni Corsare

martedì 3 ottobre 2017

Continua a camminare


"Da non crederci. Sono sola, di notte, nel deserto, e cammino insieme ad uno sciacallo. Da piccola Khalid mi diceva che gli occidentali sono un po' come gli sciacalli; creature subdole che arrivano in silenzio, dal deserto, e non li vedi perché aspettano nel buio il momento giusto per saltarti alla gola; e come i caproni, perché non conoscono la bellezza di Dio. Un po' sciacalli e un po' caproni, come gli occidentali, mi diceva. E io me li immaginavo come creature con le zanne, gli zoccoli e le corna, che uscivano di notte dal deserto senza far rumore e ti saltavano alla gola. Mi giro, guardo lo sciacallo. Io non la penso come mio fratello, vorrei dirgli, non la penso come lui. Non sei affatto una creatura subdola, lo vedo, stiamo camminando insieme, stiamo anche respirando insieme, e questo ci rende un po' fratelli, no? Lui intanto saltella con quelle zampe lunghe.  Sento nelle orecchie la voce di Khalid: "Continua a camminare". "Cammino", dico. "Lo sto facendo, non lo vedi?". Ma mi accorgo che la voce di Khalid è cambiata, è piccola, sottile, come quella di un bambino. "Continua a camminare", mi ripete. Ma non è più la voce di Khalid. E' la mia, E' la mia voce quella che sento adesso, la stessa che ha chiesto allo sciacallo di camminare insieme, la stessa che gli ha detto fammi compagnia. E' quella voce, adesso. La mia."
  


Continua a camminare. Incontro alla vita o in braccio alla morte. Continua a camminare. Verso una strada inghiottita dal deserto, che c'è ma non si vede. Continua a camminare. Dov'è lo spartiacque tra il bene e il male, bellezza e distruzione?

L'autore sembra intravederlo in quel gesto umano chiamato "sorriso". Che è qualcosa di epidermico, spontaneo. Non puoi bleffare con il sorriso. Eppure esistono due tipi di sorrisi. Quello autentico, che sprizza gioia sempre e ovunque, anche quando sei li a rischiare la vita. E' il sorriso di Abèd, fratello di Salìm, che schiva bombe e fucilate, aggirandosi tra le rovine dei palazzi distrutti, per salvare "libri" da raccogliere un domani, finita la guerra, in una biblioteca. Perché attraverso i libri è possibile tramandare le conoscenze, le abitudini, le culture di un popolo; attraverso i libri passano vite; con i libri "si possono fermare i kalashnikov". Abèd che cerca in tutti i modi di proteggere il fratello, tenerlo al riparo, lontano dalla strada. Abèd che cerca le fondamenta della vita mentre la città ti crolla addosso. Abèd che, prima di morire, lascia a Salìm un libro di poesie.


Poi c'è il sorriso di Khalid, fratello di Fatma, che diventa presto opaco, spento. Un sorriso sprezzante, di circostanza, il sorriso beffardo di chi inganna. Khalid che regala alla sorella una cintura esplosiva per il suo compleanno. Khalid che pronuncia a Fatma parole strane, a cui lei, nonostante tutto, e andando oltre ogni evidenza, si sforza tuttavia di credere; perché lei quel fratello lo ama, è sangue del suo sangue, non farebbe mai una cosa del genere. Mandarla a morire, facendola saltare in aria al primo check-point.

Attraverso gli occhi di Salìm e Fatma, due giovanni tredicenni, il lettore attraversa scenari di guerra e di sabbia, di paura; entrambi sono in cammino verso mete che non hanno scelto, e a cui cercano di dare un volto, e un senso. Sono due percorsi agli antipodi, che nella narrazione si srotolano paralleli. Sullo sfondo c'è l'Islam, con le sue ricchezze e le sue contraddizioni, tra chi predica amore e misericordia, e chi invece semina morte e distruzione. Tra chi ti salva, e chi ti manda  a morire.

"Che odore aveva il tuo regalo, Khalid?"
 "L'odore di una cosa bella Fatma. E grande. Di una cosa fatta per la gloria del Signore".
"Davvero Khalid? Perché io non ne sono più tanto sicura".
 "Ma certo Fatma, è scritto nel Corano. E il Corano non sbaglia mai."
"Conosco il Corano, Khalid, forse lo conosco più di te adesso. Ma quello che dici tu nel Corano non lo trovo. Lo cerco, Khalid, ma non lo trovo. E allora, mi dico, se non è dentro al Corano, allora è qualcosa che è dentro di te, Khalid, e nel Corano ci finisce perché ce lo metti dentro tu. E se è così allora cambia tutto. Cambiano le parole, cambia il loro suono, il loro senso, cambia anche il loro odore, e si trasforma in qualche cosa che fa scappare perfino uno sciacallo".


Questo è un libro che attraversa la morte cantando la vita, e non si scompagina di una sola riga. Sibila e non fa una piega. Ha la bellezza ostinata di certi fiori appesi ai costoni di montagna, che bucano la roccia, prendono schiaffi dal vento e dalla pioggia, si piegano, ma nulla li sradica; e sorridono a qualcosa di più alto che sta lassù, nel cielo. Non stupisce allora che Gabriele Clima abbia appena vinto il Premio Andersen 2017 (miglior libro oltre i 15 anni) con "Il sole tra le dita", "per la capacità di affrontare tematiche e situazioni delicate senza scivolare nel didascalico. Per la volontà di non indugiare tra sentimentalismi, ma di inseguire la concretezza dei legami."

Non stupisce allora il finale "biblico" di Fatma, la "Rosa di Damasco", una creatura preziosa oltre ogni misura, perché ama e perdona; quel fiume che affiora dal deserto e la porta in salvo, ricorda tanto il mar Rosso che si apre per consentire il passaggio del popolo ebraico, perseguitato e in fuga nel deserto; questo fiume, come quel mare, separa bene e male, decide della vita e della morte. Se Dio esiste, sia fatta davvero la sua volontà. Certo è che Fatma, nella sua traversata, ci ha fatto davvero vedere le stelle.

Dobbiamo ringraziare Gabriele Clima due volte. La prima, per aver scritto questo fantastico romanzo che ti si impasta addosso. La seconda, per averci fatto arrivare la voce di alcuni poeti siriani, le cui liriche aprono ogni capitolo del libro. Restituendoci la voce del deserto, "quella voce silenziosa che alla repressione contrappone sempre  e comunque la bellezza"


E tu che leggi, continua a camminare. Sempre.

"Continua a camminare" - Gabriele Clima - Feltrinelli